Guglielmo Pratesi "Veleno"

Le Officine di Porta al Prato, distrutte dal bombardamenti del 2 maggio 1944, la sua attività nel dopoguerra dedicata agli studenti e al quartiere di San Jacopino

Guglielmo Pratesi nasce a Firenze il 2 maggio del 1920 e abita con la famiglia in via Pierluigi da Palestrina 39.

Il padre, Corrado, è un artigiano del legno, la madre si chiama Ada Cosci. Guglielmo inizia a lavorare molto giovane come pantografista poi viene assunto alle Poste come telegrafista. Nel 1941 è chiamato alle armi come soldato di leva e dopo un breve addestramento è inviato in Albania, occupata dal regime fascista dal 7 aprile 1939.

Benito Mussolini considera l'Adriatico il mare nostrum e mira all'espansione territoriale verso la Grecia. L'Albania è un protettorato italiano e Vittorio Emanuele III ne è il re. Vi si trasferiscono 11.000 italiani, provenienti dal Veneto e dall'Italia meridionale, soprattutto nelle zone di Durazzo, Valona, Scutari. Altri 22.000 italiani li raggiungono dal 1940 per costruire strade e ferrovie.

In seguito, Guglielmo presta servizio sul fronte dell’Africa settentrionale partecipando anche alla battaglia di El Alamein, da cui torna a Firenze ferito e in barella nel febbraio 1943. Rimane in convalescenza per quaranta giorni e appena è in grado di muoversi cerca lavoro per aiutare la famiglia.

Durante un colloquio con il direttore provinciale delle Poste, Francois, i due hanno un diverbio. Il direttore afferma che potrà essere assunto solo dopo aver compiuto il suo dovere per la patria, Guglielmo per rabbia gli rovescia la scrivania, è arrestato e condotto al commissariato di pubblica sicurezza di San Giovanni dove il commissario strappa la denuncia e gli consiglia di non farsi più vedere. Siamo nella primavera del 1943.

Dopo l'8 settembre 1943 entra in contatto con il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), grazie al capitano Foletti, simpatizzante di Giustizia e Libertà, conosciuto sotto le armi in Libia. 

Dal Comitato gli viene indicato di mettersi in contatto con l'ingegnere Schumacher, antifascista, capo della sezione locomotive delle Officine Grandi Riparazioni di Porta al Prato e membro del CTLN per la Democrazia Cristiana. L'ingegnere lo fa assumere alle Officine nel dicembre 1943: diventa tracciatore di bielle della sezione locomotive.

In Officina sono costantemente presenti i tedeschi che hanno preso possesso di tutto l'apparato ferroviario con il consenso della Guardia Nazionale Repubblicana, la forza armata della Repubblica Sociale Italiana. Uno in particolare è ricordato dagli operai: il tenente Richter. L'Officina conta nel 1944 circa 2000 addetti tra dipendenti e avventizi. Le maestranze sono molto cresciute sia dal 30 luglio 1943, dopo il provvedimento del governo Badoglio che militarizza il personale, e soprattutto dopo l'8 settembre 1943.

Molti giovani delle classi di leva o militari, facendosi assumere alle Officine Grandi Riparazioni, si sottraggono ai bandi di reclutamento nelle forze armate della Repubblica Sociale e al lavoro coatto. Inoltre, da parte dei partiti antifascisti c'è l'indicazione di farsi assumere, perché tutti gli operai possono muoversi più liberamente e fare propaganda e proselitismo, avendo un salvacondotto dell'autorità tedesca. Infine le Officine sono strategiche, sabotarle significa danneggiare enormemente l'occupante tedesco. In Officina il Partito Comunista ha una cellula di 900 compagni, guidata dal capotecnico Giovanni Testaverde. 

Le azioni antifasciste sono organizzate, come nelle altre fabbriche fiorentine, dal Comitato Settore Industriale (CSI) creato dal Partito. Il Comitato opera in Officina grazie a Francesco Mati e a Spicchi, che a loro volta formano un Comitato clandestino di operai che vede attivi, tra gli altri, Ferdinando Accordi, Aldo Ariani, Nello Avvoltoi, Banchelli, Armando Benassai, Bruno Bitossi, Alvaro Falconi, Enzo Fanfani, Torquato Giannetti, Enzo Nistri, Adolfo Paoli, Mario Pierattini, Tullio Quarti e Ferdinando Rossi. 

Il Comitato crea 11 cellule, che agiscono in altrettanti reparti.

Nelle Officine, Guglielmo fa azioni di propaganda e sabotaggio di macchinari e locomotive in contatto con il Partito Comunista della seconda e della terza zona. La città è divisa dalle forze antifasciste in 4 zone operative dove operano le Squadre di Azione Patriottica (SAP).

Le azioni di sabotaggio sono al montaggio, alla torneria, dove si mette la polvere di minio nei cuscinetti o una chiave o la rena nel cilindro delle locomotive oppure rallentando i ritmi del lavoro: attività che normalmente vengono svolte in un’ora adesso vengono svolte in tre ore.

Le azioni di propaganda sono lasciare volantini di propaganda e giornali clandestini, come “L'Azione comunista” e “L'Avanti”, negli spogliatoi e attaccati nei gabinetti. Lavora in torneria anche il padre di Aligi Barducci "Potente", è pensionato ma richiamato in servizio.

Guglielmo è un operaio turnista, non è tenuto a seguire le regole del coprifuoco, entra nelle SAP di “Cirillo” ma una delazione lo indica come renitente alla leva ed è quindi arrestato e portato alla caserma Carlo Corsi di Borgo Ognissanti con l’idea di trasportarlo poi a Villa Triste, sede della polizia politica nazista e del comando della Banda Carità, il Reparto dei Servizi Speciali che opera a Firenze durante il periodo della Repubblica Sociale, comandato da Mario Carità. Ed è proprio nel tragitto che viene liberato dai partigiani di “Cirillo” che attaccano il furgone su cui è trasportato.

Guglielmo entra nella Resistenza con il nome di battaglia “Veleno”.

Nei giorni della battaglia per la Liberazione di Firenze compie azioni contro i cecchini nella zona di San Jacopino, del mercato di San Lorenzo e via Faenza. In una di queste azioni, appostato sulla torre di via Cristofori che guarda piazza San Jacopino, vede passare i partigiani che stanno andando a scovare un cecchino sulla terrazza di un appartamento in via Lulli, all'angolo con via Maragliano.

Il cecchino li uccide, cadono in quattro: il capitano Nannoni, il tenente Marziali, il tenente Taiti e il patriota Tedeschi. Il cecchino viene trovato la mattina del giorno dopo. I corpi dei quattro partigiani possono essere così recuperati, trasportati alla caserma di via Pierluigi da Palestrina e composti da un'infermiera che abita dalle suore francesi di via Galliano.

Lunedì 1° maggio 1944 alle 10.45 suona l'allarme, la zona di Porta al Prato viene bombardata.

Le bombe incendiarie americane di tritolo e mastice distruggono via Il Prato, le strade vicine e il Teatro comunale in corso Italia, una bomba centra il palcoscenico e lo distrugge, ma l'obiettivo sono le Officine Ferroviarie di Porta al Prato. Non si riesce a calcolare il numero dei morti e dei feriti e nel pomeriggio ci sono altri due allarmi.

Martedì 2 maggio alle 12 suona nuovamente l'allarme. Gli aerei arrivano dalla parte di Monte Oliveto, sganciano le bombe e questa volta colpiscono le Officine distruggendole quasi completamente. Demoliti locomotori elettrici e a vapore, 150 tra carrozze e treni merci, 200 e oltre carri merci saltano sui binari intorno a Porta al Prato, cilindri e ruote arrivano fino alle case di via Ponte alle Mosse. Colpito anche un treno merci carico di viveri, con forme di formaggio intere, preso d'assalto dai ferrovieri e dalla gente del posto. I quattro repubblichini di guardia e i tedeschi non intervengono. Colpiti anche i quartieri di Rifredi e Campo di Marte.

Alle Officine rimangono uccisi 14 ferrovieri e ferite molte persone. Muore anche il partigiano Paolo Lippi “Paolino”, ispettore di brigata, in missione nella zona. L'attività delle Officine si blocca fino alla Liberazione, anche perché molti operai si spacciano per infortunati, procurandosi le ferite. C'è chi si sfrega con la carta vetrata le gambe, chi si ferisce con uno scalpello la mano. Altri spariscono, facendo finta di essere rimasti uccisi nel bombardamento, altri non dormono più a casa: hanno il timore di essere trasferiti al Nord, in altre officine. Sono tutti atti di sabotaggio tesi a bloccare l'attività della fabbrica e a colpire l'occupante tedesco.  

A Firenze sotto i bombardamenti angloamericani, tra il 1943 e il 1944, muoiono più di 700 civili.

Guglielmo Pratesi riprende il suo lavoro alle Officine, dove è impegnato nel Sindacato dei ferrovieri e nel PCI. 

Nel 1948, in seguito all'attentato a Togliatti, in pieno clima di possibile guerra civile, tira fuori dai sotterranei dell'officina una mitraglia pesante Breda, tenuta nascosta smontata e da lui adattata ad un carrello. Ha intenzione di metterla sulla porta dell'officina per difendere l'impianto e gli operai. 

Solo l'intervento di Giuseppe Rossi, segretario della Federazione provinciale del Partito Comunista, lo convince a farla sparire.

Sempre in quei giorni, mentre il direttivo della sezione del PCI di San Jacopino è riunito in seduta permanente, arriva una sera un giovane militante che butta sul tavolo un fucile strappato ad uno dei soldati di pattuglia in città, apostrofando i dirigenti “Guardate come si fa, burocrati!”. La reazione è decisa e molto buffa “Vai subito a riportarglielo, disgraziato, che se no tu gli fai passare un guaio, a quel poveretto”. 

Nel 1953 è punito con 15 giorni di sospensione per aver promosso e partecipato allo sciopero contro la "legge truffa", che assegnava un premio di maggioranza del 65% alle liste che avessero superato il 50% dei voti.

In pensione si dedica alle ricerche sulla storia di Firenze e del quartiere di San Jacopino. Condivide le sue ricerche con i tanti studenti incontrati e costruisce modelli e plastici che raccontano la storia di Firenze.

Tra i tanti plastici da lui creati ricordiamo quello del ghetto di Firenze, che è stato esposto al Museo di Firenze com'era, oggi chiuso, e quello della motonave Fiorenza collocato per molto tempo nella Biblioteca Fabrizio De André. Guglielmo Pratesi muore a Firenze il 25 aprile 2009.

  • Scheda di Guglielmo Pratesi in Alberto Alidori, "Liberare Firenze per liberare l'Italia. Chi erano i partigiani. Memorie 1943-1945", a cura di Luca Giannelli, Scramasax, 2022
  • "Antifascismo e Resistenza nel rione di San Jacopino – piazza Puccini", a cura di Maurizio Bertelli e Donatella Masini, Firenze, 1992
  • Maurizio Bertelli – Donatella Masini, "Fuori della Porta al Prato. San Jacopino e Le Cascine", Comune di Firenze, 1996
  • Testimonianza di Guglielmo Pratesi, rilasciata il 29 settembre 2009 in Marco Da Vela, "Ferrovieri in tuta blu", Editori Riuniti, 1990
  • Alberto Marcolin, "Firenze 1943 – '45 anni di terrore e di fame, fascisti e antifascisti, addio camicia nera", Medicea, 1994, p. 66
  • Alfredo Mazzoni, in "I compagni di Firenze. Memorie della Resistenza (1943/1944)", Istituto Gramsci Toscano, 1984, pp. 221-244
  • Guglielmo Pratesi, "Notizie e Cronache del Rione di San Jacopino in Polverosa e dei suoi abitanti", 1991
  • "1944. La liberazione di Firenze. Partigiani e soldati alleati. Un viaggio nella memoria di oggi", a cura di Franco Quercioli, Schede di lavoro, CD&V, 2021
  • "È il 1 maggio aprite! 1893 /1948 la Camera del Lavoro di Firenze dalla Fondazione alla ricostruzione", a cura di Gianfranco Riccioni, Camera del Lavoro, 1983

Azioni di sabotaggio contro tedeschi e fascisti
Memorie dei lavoratori dell'Officina ferroviaria di Firenze Porta al Prato

C'era il capotecnico Testaverde che fu proprio quello che formò la prima cellula del partito comunista. Poi c'era, esterni, il Fossi che stampava i volantini e serigrafava e si faceva la distribuzione clandestina di propaganda. La sorveglianza della milizia era abbastanza blanda, perché non ci capivano nulla, gli se ne combinava di tutti i colori: l'officina era un po' una zona franca.
Quello schifo del tenente Richter aveva messo a far da interprete uno slavo che ci faceva da informatore a noi: “Guarda che cercano il tale.” E noi si faceva sparire.
“Puntano il tal altro” E si faceva sparire anche quello.
Particolarmente si sabotava le locomotive. Per evitare rappresaglie si metteva la rena nei cilindri dopo la corsa di prova. Poi c'era la strizzata, e stavano lì a guardare con il mitra puntato, ma tanto non ci capivano nulla, non erano mica ferrovieri! 
Una volta: “Via macchina pronta per la prova, via!”
Un tedesco monta sopra, non si fidavano più dei collaudatori, agguanta il regolatore, vroom! 
Che successe? La vite di inversione di marcia era stata messa indietro invece che in avanti. 
Gli andò in fossa: la locomotiva appena riparata, gli andò in fossa tutta spaccata.
Lettura tratta dal libro di Marco Da Vela, “Ferrovieri in tuta blu”, pubblicato da Editori riuniti nel 1990


Il dopoguerra. E i fascisti?
Memorie dei lavoratori dell'Officina ferroviaria di Firenze Porta al Prato

Sull'epurazione io non ricordo nulla. Se ne parlò poco a livello basso, al massimo di capitecnici. Qualcheduno gli avrà preso qualche manata...ma insomma.
Togliatti aveva detto: “Per prima cosa ricostruire.” 
Eh, noi giovani non s'era mica tanto d'accordo. Parecchi fascisti l'abbandonarono spontaneamente, la fabbrica, ma già da prima avevano seguito la repubblichina verso il nord. Qui rimase gente meno compromessa e poi, a livello direzionale, già da qualche anno avevano cominciato a sgangiarsi. 
I problemi erano la miseria e la sopravvivenza: da parte dello Stato non c'era volontà di ripresa. La prima richiesta fu la legalizzazione della Commissione interna, poi il livello salariale...i problemi erano forti, ma anche nelle lotte della Galileo e della Pignone le officine c'erano. Non gli hanno dato risalto ma le officine erano all'avanguardia, quando partivano loro, partiva anche quegli altri impianti.
Lettura tratta dal libro di Marco Da Vela, “Ferrovieri in tuta blu”, pubblicato da Editori riuniti nel 1990

Azioni di sabotaggio contro tedeschi e fascisti
File audio
Il dopoguerra. E i fascisti?
File audio
L'Officina ferroviaria di Firenze Porta al Prato e il bombardamento del 2 maggio 1944

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