Mario Piccioli

La storia di un giovane deportato per caso

Mario Piccioli nasce a Firenze il 2 giugno 1926. Il padre, Gino, lavora alla fonderia dell'ATAF in viale dei Mille e la mamma è operaia alla cartiera Cini in via Arnolfo, dove produce le buste e altri stampati. Mario abita con i genitori e il fratello maggiore in Borgo San Frediano 65.
Frequenta la scuola Mazzini in via dei Cardatori 3.
Le maestre e un milite fascista di San Frediano fanno lezione di fascismo e fanno vestire i bambini da piccolo moschettiere, una divisa che è una favola e per la quale Mario non ci dorme la notte.
Il motto fascista è “libro e moschetto, fascista perfetto”.
Un giorno i fascisti radunano i giovani moschettieri in piazza di Cestello, consegnano a tutti un moschetto e partono in marcia verso Monte Senario a nord di Firenze.
Dopo la marcia viene chiamato per diventare Balilla ma Mario rifiuta. Il padre e la madre non sono fascisti, non hanno la tessera del fascio.
 

 

La vita nel quartiere popolare di San Frediano scorre tranquilla, si gioca con gli amici per strada e si fa a sassaiole con i ragazzi del rione del Pignone. Il campo di battaglia è Lungarno Santa Rosa, pieno di sassi e macerie, è un buon luogo per rifornirsi di munizioni e per costruire spade e carretti, ispirandosi ai film dei cowboys visti al cinema Orfeo in piazza de’ Nerli o al Fulgor di là dall’Arno.
Non c'è bisogno di andare in centro, in San Frediano c'è tutto e si sta bene, a parte la Luporini, la squadraccia fascista che tormenta tutti, antifascisti dichiarati e non.
La sede è la Casa del fascio in Borgo San Frediano 14. Se finisci lì, ti portano nella stanza “della civetta”, così chiamata perché venivano chiuse le finestre e le imposte per rimanere al buio, e ti fanno “il servizio”, cioè ti picchiano.
Sanno bene chi è fascista e chi no.
Un giorno Mario prende uno schiaffo da un fascista quando in via della Vigna Nuova non saluta al passaggio del gagliardetto fascista. Non fa politica ma i fascisti non gli piacciono.
Inizia a lavorare da molto giovane come ragazzo di bottega, o come si dice a Firenze “bardotto”, in piazza Davanzati, a far cappelli da signora da Giuseppe Franciolini, in via Cavour alla Tipografia Mori, alla Fiat in viale Guidoni, alla pizzicheria Bruzzichelli in via della Vigna Nuova e infine in pizzicheria da Ferdinando Naldoni “Nandino”, alla Croce al Trebbio.
Durante la guerra il cibo è razionato e distribuito con la carta annonaria e nonostante il lavoro al negozio sia faticoso e impegnativo, Mario ha assicurato il pranzo ogni giorno.
Alla pizzicheria è assegnato un quantitativo di pasta, stoccata in un magazzino al Galluzzo, a Mario il compito di andare a prenderla con un carretto.
La strada di ritorno la fa a zig zag, in discesa sulla via Senese per non perdere il carico.

È il 7 marzo 1944. La sera Mario torna a casa dal lavoro e lì trova il padre e il fratello, la mamma non è ancora tornata. Non si può più uscire a cercarla, ormai c'è il coprifuoco. La mattina dopo la zia, sorella della mamma, informa i Piccioli che la mamma, che aveva partecipato agli scioperi delle fabbriche, è insieme a tutti gli altri scioperanti alle Scuole Leopoldine in Santa Maria Novella. 
Tutte le operaie della Cini sono state portate lì. Il fratello non può uscire a cercarla, è un militare fuggito dopo l'8 settembre 1943 dalla caserma di Viterbo, se lo catturano, rischia la deportazione. Il padre deve lavorare dunque è compito di Mario andarla a cercare. Compra una bottiglia di caffellatte e qualche brioche per la mamma in una latteria di via del Moro. 
Arrivato alle Leopoldine, due Carabinieri di guardia gli dicono di andar via e di tornare dopo qualche ora. Mario consegna ai due la colazione per la madre: “Portatele alla mia mamma!” Tira una brutta aria, meglio tornare al lavoro da "Nandino". Ma un fascista in borghese lo ferma, gli chiede i documenti e lo porta alle Leopoldine, dove ci sono molte persone e finalmente incontra la mamma, che viene rilasciata la sera stessa. Mario invece viene deportato. 
Non gli chiedono se è uno scioperante, le SS lo registrano e in un gruppo di 20 persone, con i fascisti che gli urlano “Ora voi traditori della patria la pagherete cara”, sale su un camion diretto a Santa Maria Novella con destinazione il campo di concentramento di Mauthausen. Sul libretto di lavoro di Mario alla data dell'8 marzo è registrato “catturato dai tedeschi” ma non è così, sono i fascisti ad averlo catturato e consegnato ai tedeschi. Sono 40 persone per ogni vagone con del pane nero e qualche scatoletta di pasta d'acciughe. Prima di partire i prigionieri gettano bigliettini dalle fessure dei vagoni, perché qualcuno li raccolga per avvertire le famiglie. Tra questi c'è un ragazzo che scoperto è ucciso dalle SS. 
Il suo cadavere rimane nel vagone per tutto il viaggio. Le SS chiudono le fessure con il filo spinato e il viaggio inizia. Durante il viaggio Mario tenta la fuga, ha un coltellino con sé con cui solleva le assi del vagone, ma ci rinuncia perché la maggioranza dei compagni è contraria, per paura che i tedeschi se la possano rifare con chi non riesce a scappare.

Il convoglio dei deportati arriva a Mauthausen l'11 marzo 1944. Nevica. Dalla piccola stazione al campo ci sono 5 km di cammino.
I deportati, in fila per cinque, con le SS che urlano in tedesco “loss, loss”, passano per le strade del paese, nessuno alle finestre, nessuno in strada.
Mauthausen è un Konzentrationslager, classificato da Himmler nel gennaio 1941 di terzo livello, vi finiscono gli incorreggibili, gli avversari del popolo e dello stato. Le condizioni sono durissime, ha una funzione prossima al campo di sterminio, è un campo d'annientamento attraverso il lavoro: gli uomini e le donne sono schiavi.
Quando i prigionieri sono inabili al lavoro, finiscono nelle camere a gas di Mauthausen o al castello di Hartheim, usato qualche anno prima dai nazisti per l'eliminazione dei disabili, secondo il Programma T4.
Sul portone del campo di Mauthausen c'è una grande aquila.
Un ufficiale da sopra un piedistallo di legno, detta le regole per non morire. Da lì i prigionieri passano nelle mani dei kapò. Li svestono di tutto, vestiti, catenine, orologi e li portano, nudi, in una stanza con altri tre, uno con la macchinetta per rasare, uno col rasoio e uno con pennello.
La testa rasata con una riga, dalla fronte alla nuca, fatta solo agli italiani e ai russi in segno di ulteriore disprezzo. Li disinfettano con pennello e li mandano alle docce. E infine i vestiti: una camicia usata ma pulita, un paio di mutande e un paio di zoccoli di legno, da trovare in un mucchio accatastato in un angolo. Si avviano alle baracche dove, come letti, trovano dei pagliericci. Trascorrono due settimane di quarantena, stipati, uno accanto all'altro.
Il cibo: al mattino una brodaglia nera, forse caffè o orzo, a mezzogiorno stessa brodaglia ma con qualche pezzo di rapa. Se sei fortunato e chi ti serve pesca dal fondo del recipiente, riesci ad averne un pezzo. La sera sempre brodaglia nera con qualcosa che galleggia dentro, un piccolo pezzo di pane e un quadratino di margarina.
Il kapò è un triangolo verde, un delinquente, è il controllore, l'aguzzino del campo. Regala le sigarette, che non sanno di niente e che devono essere obbligatoriamente fumate fuori, al freddo e alla neve. Un modo per torturare ancora di più i prigionieri. I kapò hanno gli stivali e un maglione.
Il 25 marzo 1944 Mario è trasferito al campo di lavoro di Ebensee. La divisa è pantaloni a righe, casacca a righe, un mutzen, un cappellino a righe, e due pezzi di stoffa bianca: uno è il triangolo rosso dei politici e la scritta It. Italiano e l'altro ha il numero 57344.
Mario non è più Mario ma 57344 e deve imparare il suo numero in tedesco, perchè agli appelli, quando chiamato, deve rispondere, altrimenti sono botte.
A Ebensee il campo è ancora da sistemare ed è necessario spalare la neve. Inizia il lavoro nelle gallerie, dove i tedeschi, al riparo dai bombardamenti Alleati, vogliono costruire i missili, le armi segrete per vincere la guerra. La galleria è a un chilometro dal campo ma con la fame, il freddo, la neve, il terrore e gli zoccoli di legno, che sul ghiaccio scivolano, sembra un tragitto che non finisce mai. Mario lavora fuori dalla galleria, spala, piccona e trasporta.
Ha sempre la divisa bagnata, non si asciuga mai, si può lavare solo alcune volte e di notte. I tedeschi li fanno spogliare e, nudi, devono attraversare il campo per andare alle docce e tornare, sempre nudi.
Anche i cani, addestrati ad azzannare, controllano i prigionieri.
Quando, scaricando i vagoni, trova dei pezzi di lignite, li nasconde. Si dice che dalla lignite si possa fare la margarina, è buona anche quella!
Lo sguardo è sempre rivolto a terra, alla ricerca di qualche briciola di cibo, anche una buccia di patata cotta può andar bene. Una volta scambia il coltellino, fatto con un chiodo e il fil di ferro, con una gamella di bucce di patate cotte. È un pranzo prelibato.
Mario ha i pidocchi, si gratta fino a diventare rosso. Obiettivo è arrivare in infermeria e mangiare un po' di più. Ce la fa ma i tedeschi, pensando ad un'infezione, disinfestano tutti e avviano alcuni ad una porta, altri ad un'altra: è la selezione, ma Mario e gli altri non lo sanno, non sanno dei forni crematori.
Mario ritorna a Mauthausen.
I tedeschi disprezzano gli italiani e anche tra i prigionieri non c'è benevolenza: i russi e i francesi considerano gli italiani fascisti e traditori. Non c'è solidarietà al campo, tranne qualche rara occasione e qualche colpo di fortuna. Un russo, un giorno, lo salva dal kapò. Una sera Mario spezza il suo piccolo pezzo di pane in due. Uno ne mangia, l'altro la mette sotto la casacca. Un russo lo nota e avverte il kapò che Mario ha rubato.
Il kapò lo frusta con il nerbo di gomma con dentro un ferro ma interviene il russo che dormiva sopra la branda di Mario. Non è vero che Mario ha rubato, il pane è suo, l'ha solo diviso! Il russo denunciante è poi frustato dal kapò.
Il 10 settembre 1944 è trasferito a Linz III, sottocampo di Mauthausen, dove lavora agli altiforni, questa volta al chiuso e dove conosce Piero Scaffei, argentiere di Piazza Tasso. Gli Alleati bombardano Linz.
Il rifugio della sua squadra di lavoro è colpito in pieno, sono 32 uomini e solo in 4 si salvano, Mario è uno dei 4. È trasferito in infermeria.
Il 5 maggio 1945 il campo è liberato dagli americani. Mario pesa 31 chili, inizia il ritorno a casa.

È spostato in un campo gestito dagli americani, poi su un treno bestiame trasferito a Bolzano, dove la Croce Rossa lo registra. Da qui viene ospitato in un altro campo di smistamento a Forlì, da cui, con altri quattro, scappa e torna a Firenze in parte a piedi, in parte su un camion.
Rientra a Firenze il 23 giugno 1945: scende alla Fortezza da Basso e, a piedi, si avvia verso San Frediano.
I ponti non ci sono più, attraversa il Ponte Santa Trinita, al suo posto il ponte Bailey. Di là d'Arno incontra lo zio. A casa, finalmente! Tutti pensavano che fosse morto.
Il suo primo ricordo di casa è il bollito della zia.
Poi una successione di parenti di chi è stato deportato chiede notizie dei propri cari ma Mario non ne ha di nessuno.
Viene esonerato dalla chiamata alle armi perché deportato e il 23 luglio 1945 torna a lavorare.
L'impiego è alla cartiera Cini, in via Arnolfo, al posto di uno dei cinque deportati a Mauthausen e mai più tornati. In cartiera conosce Pierina Giorgi, originaria di Vicchio, e la sposa.
Fonda negli anni '50 la sezione ANED di Firenze, la cui prima sede fu in Palazzo Strozzi, poi presso l'SMS di Rifredi in via Vittorio Emanuele, ora in via Michelangelo Buonarroti.
Si iscrive alla CGIL,alla categoria dei poligrafici, e al PCI. A causa della sua attività politica e sindacale, perde l'occasione di lavorare come tipografo a “La Nazione”.
Nel 1963 entra a lavorare alla Provincia di Firenze e vi rimane fino al 1989, anno del suo pensionamento.
È stato presidente della sezione dell'Associazione Nazionale Ex Deportati nei campinazisti (ANED) di Firenze.
Si spende come testimone della deportazione nelle scuole e nei viaggi della memoria, promuove la firma del protocollo della memoria tra il Comune di Firenze e la città di Mauthausen, firmato il 9 maggio 2004.
Si trasferisce nel quartiere dell'Isolotto. Muore a Firenze il 3 agosto 2010.
 

  • Mario Piccioli, “Da San Frediano a Mauthausen. Testimonianze di un ex deportato nei lager nazisti”, a cura di Bruno Confortini, Comune Network, 2007
  • Maria Luisa Menegatto e Adriano Zamperini, “Memoria Viva. Responsabilità del ricordare e partecipazione civica”, Firenze University Press, 2015
  • “La speranza tradita. Antologia della deportazione politica italiana. 1943-1945”, Giunta Regionale Toscana, Pacini, 1992
  • Italo Tibaldi, “I trasporti dei deportati 1943-1945” in “Compagni di viaggio. Dall'Italia ai lager nazisti”, Franco Angeli, 1994
  • “Mauthausen”, a cura di Italo Tibaldi e Giandomenico Panizza, Aned, 2000

L'arrivo a Mauthausen, i kapò
Memorie di Mario Picciòli, deportato nei campi di concentramento di Mauthausen, Ebensee e Linz III e sopravvissuto

Scesi dal treno, ci misero in fila per cinque. Iniziammo a salire una collina sempre incalzati dall'urlo dei soldati “los, los” ci urlavano, “in fretta, in fretta”. Quelle furono le prime parole che ci dissero. 
In quei quindici mesi passati nei campi avrei imparato a riconoscere le parole peggiori, gli ordini, le offese. Erano quelle le uniche parole che ci dicevano. Passammo anche dal paesino senza che nessuno si affacciasse alle finestre o uscisse fuori dalle porte, non vedemmo anima viva. 
Arrivammo al campo, sul portone ricordo che c'era una grande aquila in bronzo o di qualche altro materiale. Sempre in fila per cinque ci misero in uno spazio fra le baracche e il muro di pietra del campo. 
Subito un ufficiale tedesco ci fece un breve discorso in italiano, un italiano comprensibile. Ci disse tutto quello che non dovevamo fare per non essere uccisi, ci dettò subito le regole del campo. Fece questo discorso su un piedistallo di legno mentre attorno a noi c'erano altri personaggi che poi avremmo imparato a conoscere: i kapò, i nostri aguzzini. 
Finito il discorso dell'ufficiale, i kapò ci tolsero tutto quello che avevamo addosso, catenine, orologi, anelli, tutto, e ci fecero spogliare. Rimanemmo nudi. 
Poi ci indirizzarono verso una scala, che c'è ancora, che portava al sottosuolo.
Lettura tratta dal libro di Mario Picciòli, “Da San Frediano a Mauthausen. Testimonianze di un ex deportato nei lager nazisti”, a cura di Bruno Confortini, Comune Network, 2007

I campi di concentramento sono favole?
Memorie di Mario Picciòli, deportato nei campi di concentramento di Mauthausen, Ebensee e Linz III e sopravvissuto

Ho sentito dire che a Ebensee, nella baracca dove mettevano i moribondi assieme ai morti in attesa di essere bruciati, alcuni disgraziati ancora vivi avevano tentato di mangiare i disgraziati già morti. E, quando qualcuno cadeva a terra, nessuno cercava di aiutarlo. Non ne avremmo avuto la forza. E poi, per cosa? Per farsi ammazzare dalle SS? Abbiamo dormito con i morti accanto. Ancora oggi tante cose brutte che accadono, non mi fanno né caldo, né freddo. Da quell'esperienza terribile mi è rimasta questa durezza di carattere.
Quando racconto questi fatti, a volte penso di non essere creduto, come se raccontassi favole. Lo penso anche quando parlo ai ragazzi delle scuole, penso che qualcuno avrebbe ragione a domandarmi: “Ma cosa ci racconti, novelle?” 
Perché a volte, mi sveglio la notte e ci penso alle cose che ho passato, e anche a me sembrano favole da quanto sono incredibili.
Lettura tratta dal libro di Mario Picciòli, “Da San Frediano a Mauthausen. Testimonianze di un ex deportato nei lager nazisti”, a cura di Bruno Confortini, Comune Network, 2007

L'arrivo a Mauthausen, i kapò
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Mario Picciòli, giovane deportato nei lager nazisti

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