Le azioni partigiane in Mugello, la ricostruzione del Ponte Santa Trinita "dov'era e com’era"
Riccardo Gizdulich nasce a Fiume il 30 marzo 1908. La famiglia è composta dal padre Giuseppe, dalla madre Emilia Castelli, dal fratello Giuseppe e dalla sorella Irene. Il primo lascia Fiume alla volta dell’America all’età di 18 anni, nel 1924, e Irene insieme al marito e alla madre lasciano Fiume per l’Italia dopo la guerra, negli anni Cinquanta.
Riccardo arriva a Firenze intorno ai 15 anni, consegue la maturità scientifica e poi si iscrive alla Facoltà di Architettura. Si mantiene agli studi, lavorando come impiegato alla Banca commerciale e facendo il disegnatore in vari studi professionali, fra i quali quello di Giovanni Michelucci con cui riprenderà i contatti e collaborerà per qualche anno dopo la laurea.
Conosce Gina Nardi, figlia di un ingegnere originario di Borgo San Lorenzo che vive a Ronta vicino Borgo San Lorenzo, in provincia di Firenze. Non è ancora laureato quando i due si sposano e l'anno successivo si trasferiscono a L'Aquila, dove Riccardo è impiegato come disegnatore presso la Regia Soprintendenza all'Arte medioevale e moderna degli Abruzzi.
Ancora non è architetto ma già nel 1937 esegue il suo primo restauro, quello della chiesa romanica di Santa Maria a Civitaquana e del relativo campanile. In quell'anno ha anche il primo di tre figli.
Rientrato a Firenze nel 1940 si trasferisce in via del Ghirlandaio 55, si laurea in architettura e collabora con la Regia Soprintendenza all'Arte medioevale e moderna della Toscana.
L'8 settembre 1943 Gizdulich è a Caserta, richiamato in servizio con il grado di capitano d'artiglieria.
Decide di non arruolarsi a fianco dei tedeschi e riesce a tornare a Firenze, dove lascia moglie e figli, per stabilirsi a Ronta dove le cognate hanno la casa di famiglia, ereditata dal padre e che usano per le vacanze estive.
Ronta è un rinomato posto di villeggiatura che Riccardo frequenta da anni.
Da grande camminatore, conosce molto bene il territorio e lì è in contatto con la famiglia Ismaelli, di idee antifasciste. È il luogo ideale per trovare rifugio e gruppi organizzati. Infatti tra il 10 e il 20 ottobre 1943, su iniziativa di un piccolo gruppo di abitanti del paese, nasce la Banda di Ronta, che diverrà brigata con Riccardo comandante su indicazione del Partito d’Azione. Il gruppo è formato da Fulvio Tucci “Vieri”, Bruno Piancastelli “Gigi”, Franco Toccafondi “Giorgio”, Ezio Castelli “Didon”. Fulvio Tucci, studente di chimica, è l'unico ad avere una formazione politica.
Socialista convinto, entra a far parte del Partito d'Azione, dove conosce Ottorino Orlandini, ufficiale di collegamento con le bande partigiane del Mugello e oggi noto come membro del comitato militare del Partito d'Azione.
Nelle azioni partigiane Orlandini può contare sulle Brigate Rosselli, sulle le squadre d'assalto (SAS), sulle unità speciali.
Riccardo Gizdulich “Capitano” prima “Anselmi”, poi “Guerrini”, poi “Bianchi”, è indicato, su proposta di Orlandini, come primo comandante della brigata, formata da tre gruppi, per un totale di centoventi partigiani a cui si aggiungono i prigionieri militari (due sudafricani, due britannici, due americani), tre polacchi e quattro disertori austriaci. I partigiani appartengono alla piccola borghesia di Ronta, ad eccezione di due contadini.
La brigata può contare sull'aiuto di due parroci: don Egidio Brogi parroco di Santa Maria ad Acone, e don Rino Bresci parroco di Ronta. I due conoscono il territorio, assistono, consigliano e proteggono i partigiani.
Gizdulich insieme a Orlandini lavora per far collaborare tra loro comunisti e cattolici, azione indispensabile per la vittoria sui nazifascisti che però suscita perplessità in gran parte della brigata.
La brigata, in contatto con il Comitato di Liberazione Nazionale di Borgo San Lorenzo, si dedica al reclutamento e al rifornimento delle armi per cui Gizdulich trova un contatto per averne dagli inglesi.
Il CLN dispone che Gizdulich gestisca e concordi autonomamente il ricevimento dei lanci, provveda alla raccolta del materiale e al trasporto a Firenze in nascondigli decisi dal Partito d’Azione: via Guicciardini e viale dei Mille. La Brigata Rosselli, in primis la Banda di Ronta, esegue, senza darne comunicazione preventiva neppure al Partito, così come da istruzioni.
Monte Giovi è il luogo prescelto per i lanci, il più importante dei quali è quello del 15 febbraio 1944. Da giorni i partigiani attendono un messaggio in codice da Radio Londra, messaggi speciali come “le foglie volano, la mucca ha fatto il latte”.
Uno spiazzo quadrato sul monte è il luogo dove sono paracadutate le casse di legno con dentro le armi. Serve tutta la notte per recuperarle, perché alcuni paracaduti finiscono nella boscaglia e nelle forre.
Gizdulich coi suoi uomini provvede alla raccolta del materiale e al trasporto di quanto è possibile portare in bicicletta, passando per strade secondarie ed entrando a Firenze lungo i binari della ferrovia presidiata da posti di blocco di giovanissime reclute della Wehrmacht, senza mai sparare un solo colpo. A due per volta superano il posto di blocco mentre gli altri, a distanza e sparpagliati, con armi nascoste e il colpo in canna, passano indisturbati senza che a nessuno venga chiesto di mostrare i documenti.
I materiali forniti dagli Alleati sono molti per poterli trasportare con le biciclette, così Gizdulich chiede a Orlandini di procurargli un furgone. Questi arriva insieme a Max Boris e altri due e porta le armi a Firenze con il camioncino. Gizdulich rientra coi suoi partigiani, con le armi leggere, in bicicletta.
Tra le varie armi, ci sono otto mitragliatori Sten, portati da Gizdulich insieme a otto suoi uomini: un mitra è "trattenuto" di nascosto da un partigiano, ne restano sette.
I materiali bellici, portati in viale dei Mille e in via Guicciardini, sono scoperti e requisiti il 26 febbraio 1944. Per coincidenza, lo stesso giorno Ottorino Orlandini è arrestato dentro il portone di casa e portato alla centrale di Polizia con il tram. Per ulteriore coincidenza Max Boris sale dopo poche fermate sullo stesso tram e, riconosciuto Ottorino senza essersi reso conto che è in stato di arresto, lo saluta. Così la polizia gli chiede i documenti e porta alla centrale anche lui. L'arresto dei due non sembra essere dovuto allo stesso delatore dei nascondigli.
Alcuni Sten, su garanzia di Gizdulich, sono prestati alla Brigata Caiani per l'attacco alla caserma dei carabinieri di Vicchio ma non vengono restituiti e alcuni partigiani del gruppo di Ronta, andati a reclamarli, sono disarmati dalla banda di “Brunetto” della Caiani: si rischia un bagno di sangue. Un paio di partigiani, che sono stati disarmati, prendono due Sten per tendere un agguato a Gizdulich, altri provano a dissuaderli e altri ancora lo avvisano.
I malcapitati disarmati non comprendono che anche Gizdulich è stato ingannato come loro e pensano ad un suo accordo segreto con la Caiani, si sentono traditi e chiedono che il comandante sia rimosso dall'incarico.
L'estate del '44 è vicina, la liberazione è nell'aria e non si può compromettere l'operatività di due Brigate, la Rosselli e la Caiani. Non c'è tempo per le competizioni politico-ideologiche e Gizdulich rassegna le sue dimissioni al CTLN.
Alla base del dissidio ci sono altre motivazioni di fondo: l'eterogeneità politica della brigata nel suo insieme, il malcontento per la collaborazione richiesta tra cattolici e comunisti, l’arresto del cattolico Orlandini, tenuto in grande considerazione dall'ala cattolica della brigata, la cui mancanza ha lasciato spazio ai più facinorosi, infine una diversa visione dell'azione partigiana.
Gizdulich, in linea con la strategia disposta dal comitato militare del Partito d’Azione, crede nell'organizzazione di piccole squadre volanti che effettuano azioni fulminee a basso rischio di ritorsioni e rappresaglie sulla popolazione, mentre parte della brigata propende per uno scontro aperto e decisivo con i nemici. Il dissidio è molto forte.
Gizdulich comanda la Brigata Rosselli dall’ottobre del 1943 al marzo del 1944, dopo di lui tre altri comandanti si succedono prima della liberazione; la Brigata Rosselli ingaggerà così lo scontro che voleva col nemico ma ne uscirà sconfitta e con gravi perdite; la maggioranza dei suoi uomini passerà ad altre formazioni; il ruolo assegnato al residuo della Brigata Rosselli nello scontro finale per la liberazione di Firenze sarà marginale e secondario.
Trae beneficio dall'episodio il comandante delle Brigate Garibaldi Aligi Barducci “Potente”, che può così accogliere il "Capitano Bianchi" tra le sue file.
"Potente" ha bisogno di trovare un percorso sia per raccogliere i suoi gruppi sparsi sul territorio sia per entrare a Firenze dalle strade più opportune per non rischiare di essere bloccato in periferia in una battaglia che avrebbe allungato i tempi per la liberazione. Il "Capitano Bianchi" è la persona più adatta.
Il 6 luglio 1944 si costituisce la Divisione Arno e Gizdulich entra a far parte del comando, dirigendo prima l'Ufficio operazioni, poi l'Ufficio informazioni militari.
Fa parte, insieme a Alfio Campolmi, a Gianni Facca e a Sandro Contini del gruppo del Partito d'Azione operativo per attentati e atti di sabotaggio mediante esplosivi.
Firenze, luglio 1944.
Le forze tedesche iniziano a spostare mezzi e uomini per organizzare la difesa sulla Linea Gotica, il sistema difensivo costruito dall’esercito tedesco nell'Italia centro-settentrionale.
L'8 luglio 1944 il Comando tedesco emana l'ordinanza del coprifuoco: nessuno può uscire dalle 22 alle 5, le pattuglie e le sentinelle hanno l'ordine di sparare a chiunque venga trovato per strada in quelle ore.
I fascisti scappano al Nord. Il maggiore Carità è il primo, lo seguono Giuseppe Bernasconi, non prima di rendersi responsabile delle morti dei partigiani Elio Chianesi e Bruno Fanciullacci, dei civili in piazza Tasso, tra cui il piccolo Ivo Poli, e dei 17 fucilati alle Cascine. Scappa Alessandro Pavolini, detto “Buzzino”, lasciando a Firenze un manipolo di franchi tiratori, scappa il prefetto Raffaele Manganiello, portandosi dietro 4 milioni della cassa provinciale.
Il console tedesco Gerhard Wolf, che si è speso per dichiarare Firenze “città aperta”, lascia la città il 25 luglio nelle mani del colonnello Adolf Fuchs.
Firenze è saccheggiata e depredata, i tedeschi portano via anche i carri funebri e i letti degli ospedali. La ritirata aggressiva ha l'obiettivo di creare più ostacoli possibili all'avanzata gli Alleati.
Il 29 luglio ai fiorentini viene dato l'ordine di sgomberare le case in prossimità dell'Arno su entrambe le sponde, portare via gli oggetti e trovarsi un nuovo alloggio. Hanno tempo fino alle 18 del 30 luglio.
Da quel momento e fino alle 14 del 3 agosto il silenzio grava sulla città, in mano ai tedeschi che sabotano la più importante centrale elettrica e distruggono l'acquedotto comunale.
La città è senza luce e senza acqua.
Harold Alexander, comandante in capo delle forze militari Alleate, diffonde da Radio Londra un messaggio di lotta e resistenza: "fiorentini resistete, fate in modo che Firenze non venga distrutta, impedite il brillamento delle mine, rendete libero il passaggio della città per consentire l'inseguimento delle truppe germaniche in fuga verso la Linea Gotica".
Alle 11.40 del 31 luglio 1944 il comando tedesco dà il via all'Operazione Feuerzauber, Incantesimo di fuoco. I genieri tedeschi minano i ponti e le zone intorno a Ponte Vecchio.
Alle 17 del 3 agosto entra in vigore lo stato di emergenza: tutti devono rimanere chiusi in casa con porte e finestre sbarrate.
Sono le 22 del 3 agosto e i ponti saltano.
Fino all'alba si susseguono trenta esplosioni. Crolla per primo il Ponte alle Grazie, poi a mezzanotte e mezza Ponte Santa Trinita, e uno dopo l'altro, Ponte alla Carraia, Ponte San Niccolò, Ponte alla Vittoria e tutte le strade intorno a Ponte Vecchio.
La città è avvolta in una nuvola di fumo e polvere, un incantesimo tutt'altro che magico.
La scelta di distruggere i ponti e tra questi il Ponte Santa Trinita, costruito tra il 1567 e il 1571 da Bartolomeo Ammannati, e non Ponte Vecchio, è assunta dal feldmaresciallo Albert Kesselring.
L’esercito tedesco fa terra bruciata per rallentare l'avanzata alleata ma in pochi giorni, sui ruderi del Ponte dell'Ammannati, gli Alleati ripristinano il passaggio con un ponte Bailey.
In quel drammatico agosto 1944 la Commissione rimozione macerie, divenuta poi Commissione artistica per Firenze distrutta, affida all'architetto partigiano Riccardo Gizdulich la direzione del recupero dei frammenti del Ponte Santa Trinita. Il recupero delle statue inizia ai primi di settembre 1944.
L'architetto Gizdulich prende subito a cuore la perdita del Ponte Santa Trinita. Lui, architetto e urbanista, vive per l'arte, per ciò che è bello e per ciò che forma e condiziona il carattere e lo stile della città e della società. Buona parte della città è da ricostruire ed è necessario prendere una decisione importante: ricostruire e modernizzare o mantenere il carattere e restaurare?
Gizdulich non ha dubbi: le moderne abitazioni e gli edifici comuni possono essere ricostruiti anche più moderni, come lui stesso farà in via Por Santa Maria, ma per i monumenti il recupero richiede il restauro conservativo. Il Ponte Santa Trinita costituisce quindi il principale punto di partenza.
Si tratta di scegliere e condizionare l'impronta della sua città, perché questo sente Gizdulich, un immigrato che ha scelto la città dove vivere e la considera come la sua città.
Inizia a lavorare a soluzioni tecniche per restaurare il Ponte Santa Trinita, coinvolgendo insistentemente il mondo cittadino della cultura e gli intellettuali.
Contatta decine e decine di nomi illustri del mondo dell'arte, della politica cittadina e anche di quella nazionale. Mobilita Orlandini, divenuto suo cognato acquisito, che in quel periodo vive a Roma nel mondo della politica, a cui demanda il compito di reperire le risorse economiche necessarie.
Ha inoltre bisogno di nomi di prestigio per fare un comitato.
Gli rispondono positivamente gli storici dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti e Bernard Berenson, l’antiquario Luigi Bellini e tanti altri. La stampa fiorentina e quella nazionale danno ampio spazio al dibattito, che coinvolge tutta la cittadinanza. Il quesito alla fine è solo uno: “lo si ricostruisce in cemento armato o lo si restaura?”
Il 22 giugno 1948 il Comitato per la ricostruzione del Ponte Santa Trinita (Committee for the reconstruction of St. Trinita bridge), con sede in via Tornabuoni 16 e con segretario generale Bellini, allestisce la prima mostra a cura dell'architetto Gizdulich.
Il 29 gennaio 1954, dopo anni di discussioni su come ricostruire il Ponte e sui materiali da usare, il progetto è affidato congiuntamente a due progettisti: Riccardo Gizdulich per la parte architettonica e artistica del restauro e l'ingegnere Emilio Brizzi per i calcoli statici che devono essere fatti ai sensi della normativa vigente ai fini della sicurezza.
Il 2 maggio iniziano i lavori. Tra l'agosto e il dicembre 1955 le strutture superstiti del ponte sono demolite. Il ponte è ricostruito, utilizzando in parte conci in pietra originali e in parte nuove pietre, ricavate dalla riapertura della cava di pietraforte nel giardino di Boboli, utilizzata nel Cinquecento.
L'architetto Riccardo Gizdulich riesce con la massima esattezza a riprodurre la forma e le dimensioni dei singoli elementi del ponte grazie a procedimenti fotogrammetrici applicati su tutta una serie di fotografie storiche.
Nel gennaio del 1958 le quattro statue delle Stagioni di Giovanni Caccini, Pietro Francavilla e Taddeo Landini, sebbene danneggiate, sono ricollocate. Solo la Primavera resta priva della testa fino al suo ritrovamento il 6 ottobre 1961 grazie a un renaiolo che, in modo del tutto casuale, la ritrova vicino al Ponte Vespucci.
Sulla testa della Primavera la Parker, famosa fabbrica americana di penne, aveva fissato un compenso di 3000 dollari per chi l'avesse ritrovata.
Il Ponte Santa Trinita è riaperto il 16 marzo 1958. Lo stesso giorno, al cinema Odeon, è proiettato il documentario di Riccardo Melani e Bernardo Seeber "Dov'era e com’era", con il commento di Riccardo Gizdulich. Il documentario, girato dal maggio 1955 al febbraio 1958, racconta in presa diretta le varie fasi di ricostruzione del ponte.
Negli anni successivi Gizdulich svolge sia l'attività di restauratore che di progettista anche di svariati ponti sull'Arno, quello della Fortezza a Pisa, e a Firenze il Ponte alle Grazie e il Ponte Vespucci. Lavora presso il Museo archeologico di Firenze, la Soprintendenza in Palazzo Pitti, la Soprintendenza di Parma, la Soprintendenza ai monumenti e gallerie di Siena e a quella archeologica della stessa città, la Soprintendenza alle antichità dell'Emilia-Romagna. Fra il 1965 ed il 1966 usufruisce di un pensionamento anticipato e si dedica alla libera professione.
Attivo come esperto culturale per il Ministero degli esteri che gli conferisce l'incarico di supervisore di tutti i lavori di restauro archeologico della Tunisia nell'ambito di un progetto di collaborazione tra i due paesi. Si trasferisce così a Cartagine dove si occupa dell'intervento alla Moschea Okba di Kairouan, degli scavi di Maktar e dei resti archeologici di Dougga.
Partecipa anche ai lavori di scavo e di restauro del teatro di Leptis Magna in Libia.
Nei primi anni '70, rientrato a Firenze, è membro di varie commissioni edilizie e consulente della Regione per i centri storici e i Piani regolatori generali.
Infine è degna di nota la sua giornaliera attività nel direttivo della sezione fiorentina di Italia nostra per tutto ciò che concerne abusi edilizi, salvaguardia del territorio e del patrimonio artistico. Parallelamente dà origine all'Associazione Firenze viva per analoga attività di protezione e salvaguardia di Firenze.
Nel 1976, come libero professionista, restaura il Teatro Goldoni a Firenze, il Teatro Niccolini a San Casciano Val di Pesa in provincia di Firenze, il Teatro dell'Olivo nel comune di Camaiore in provincia di Lucca.
Suo il progetto del centro elettro-contabile della Cassa di risparmio in via Bufalini a Firenze e dell'edificio lungo le Mura di Santa Rosa su incarico della Cassa di risparmio di Firenze. Ha lasciato anche vari esempi di rinomate ville moderne, apparse sui testi d'architettura, sul catalogo Bolaffi. Tra questi la Villa dell'Olmo presso Fiesole, La Torricella presso Grezzano nel Comune di Borgo San Lorenzo.
Muore a Firenze il 6 maggio 1983.
- Carlo Francovich, “La Resistenza a Firenze”, La Nuova Italia, 1975
- “Le Brigate Rosselli in prima linea nella guerra di liberazione”, In: “La libertà”, II, 10, 15 luglio 1944, pp. 1-4
- “Più in là. Ventitré partigiani sulla lotta nel Mugello”, La Pietra, 1976
- Massimo Biagioni, “Scarpe rotte eppur bisogna andar, fatti e persone della Resistenza in Mugello e Val di Sieve”, Pagnini e Martinelli, 2004
- Francesco Fusi, “Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini”, Viella, 2021
- Luca Menconi, “Le Brigate Rosselli nella Resistenza a Firenze”, Quaderni del Circolo Rosselli, Nuova Serie, 1-2, 2023
- “Firenze “Operazione Feuerzauber” (Incantesimo di fuoco). La tragica estate 1944”, a cura di Luca Giannelli, Scramasax, 2014
- Paolo Paoletti, “Il Ponte a Santa Trinita. Com’era e dov’era”, Becocci, 1987
- Fulvio Tucci, “Impariamo a conoscerci così… quasi per istinto”, Youcanprint, 2021
- Ottorino Orlandini, “Memoriale di una vita e tre guerre”, Sarnus, 2022
Il Ponte Santa Trinita distrutto dalle mine tedesche la notte tra il 3 e il 4 agosto 1944
Memorie di Piero Calamandrei, antifascista, tra i fondatori del Partito d'Azione
Non posso dimenticare la prima visione di quella rovina, come mi apparve la mattina del 29 agosto, appena potei rientrare a Firenze. Vi ero arrivato a notte alta da Porta Romana, su una macchina militare del PWB: la macchina prese da via dei Serragli e traversò l'Arno sul ponte provvisorio che già i pontieri alleati avevano gettato sui piloti rimasti in piedi. Era buio pesto: che il Ponte a Santa Trinita non c'era più me ne accorsi soltanto, senza vedere, dal traballio metallico di quel passaggio. Ma la mattina volli andare a vedere cogli occhi: solo, col cuore stretto, come quando si sta per entrare nella camera mortuaria dov'è esposta la salma di una persona cara. Riuscii, non so come, tra le rovine di Por Santa Maria, ad arrivare all'ingresso del Ponte Vecchio, l'unico rimasto in piedi: la strada era coperta da uno sbriciolio di macerie; ma sulla linea mediana di esse già era stato tracciato un sentiero praticabile, dove i pedoni potevano passare in fila, uno per uno, attenti a non uscire dalla battuta per non mettere il piede sulle mine. Soltanto a metà del ponte, dove c'è la piazzetta vuota col busto di Benvenuto Cellini, potei gettare, quasi con paura, uno sguardo verso l'Arno, e intravedere quell'orrore.
La gente, di tutti i ceti, arrivata lì, sostava appena, guardava un istante, e subito proseguiva in silenzio; e non c'era uno che non piangesse.
Eppure tutti si facevano coraggio. Era tornata la libertà, era tornata la dignità, l'avvenire era riaperto: “E il Ponte Santa Trinita, lo rifaremo.”
Lettura tratta dall'articolo di Piero Calamandrei, “Il Ponte a Santa Trinita” pubblicato sulla rivista “Il Ponte”, numero 9 del 1954
La distruzione dei ponti, la notte del 3 agosto 1944
Memorie di Sergio Giannelli, abitante di Via Guicciardini, una delle strade di Firenze più colpite dalle mine tedesche
La tragedia arrivò verso le dieci di sera del 3 agosto: il palazzo sussultò, scosso dalle fondamenta ogni volta che saltavano le nostre strade. Fu un tormento che non sembrava finire mai. Verso le prime luci dell'alba saltò l'ultimo ponte. Allora io, mio padre, “Maciste” e altri tornammo attraverso il passaggio segreto alla chiesa e da lì in piazza Santa Felicita.
Fuochi infernali si levavano ancora dalle macerie delle nostre case sventrate. Ad un tratto vidi la macchina da cucire della mamma: miracolosamente non era rimasta sepolta dalle macerie. La facciata del palazzo era crollata quasi per intero, eccetto le nostre due finestre. Il palazzo era ormai una scatola vuota. Il primo flash dopo le macerie di casa è quello di un franco tiratore che sparava dalla torre dei Mannelli. Un'ottima posizione perché di lassù copriva tutte e tre le strade, arrivando fino al ponte alle Grazie. Per quanto da lì non avesse molte vie di fuga, se non il Corridoio Vasariano, i primi partigiani non riuscirono a snidarlo.
Lo fecero fuori i soldati alleati, che per la verità avevano una gran paura di quei tiratori scelti.
Lettura tratta dal libro “Firenze Operazione Feuerzauber. Incantesimo di fuoco, la tragica estate 1944”, a cura di Luca Giannelli, pubblicato da Scramasax editore nel 2014