La scelta dei 650.000 Internati Militari Italiani che non aderirono alla Repubblica sociale dopo l'8 settembre
Osvaldo Benvenuti nasce a Firenze il 12 aprile 1916 in una famiglia antifascista nella frazione del Galluzzo, a sud di Firenze. Il padre, Adolfo, è operaio al pastificio Zangheri in via Senese, la madre di chiama Parisina. Hanno cinque figli, quattro femmine e un maschio, l'ultimo nato.
Osvaldo inizia a lavorare dopo aver concluso le scuole elementari, sceglie il mestiere di argentière nel laboratorio di Armando Castellani in via San Niccolò 39. Castellani è un orafo argentiere antifascista, sarà arrestato dopo la strage fascista di Piazza Tasso del 17 luglio 1944 e per Benvenuti diventa un vero e proprio mentore Il legame tra l'antifascismo e la fabbrica è molto forte. Con l'aiuto degli operai più anziani, in lotta da sempre col regime fascista, molti, tra cui Osvaldo, maturano la loro scelta antifascista.
Osvaldo ama il calcio, la bicicletta e la lettura, legge romanzi di tutti i generi, in particolare gli storici, i gialli, quelli di avventura e anche alcuni libri proibiti che Castellani gli fornisce. Castellani è un vero e proprio mentore per Osvaldo. Nel 1936 Osvaldo conosce Danila in una sala da ballo come è consuetudine al tempo. Nel 1938 si sposano e avranno poi tre figli: Gianna, Gianni e Franca.
Nel 1938 è soldato di leva, nel 1940 è arruolato e partecipa alla campagna di Albania. Viene rimpatriato nel 1943 a causa di una ferita di guerra e ricoverato all'ospedale di Trieste. È caporal maggiore dell'8° reggimento, Guardia di frontiera.
L'8 settembre 1943 è in viaggio per Firenze per la sua licenza di convalescenza. Il 9 settembre è a Bologna, sul treno che può portarlo a casa, ma un carro armato tedesco Tiger si piazza sui binari, puntando proprio su quel treno. Osvaldo, invano, cerca abiti da civile ma non trova niente, nessuna valigia, nessun vestito. Ormai in trappola i tedeschi salgono sul treno, lo arrestano e lo portano in un angolo della piazza di fronte alla stazione con altri soldati e ufficiali. Osvaldo è disperato, la testa tra le mani, in lacrime.
In colonna, guardati a vista dai tedeschi, i soldati attraversano la città e sono portati in una caserma. Osvaldo ha la febbre, la ferita al piede è gonfia. Nel piazzale della caserma arriva un maggiore italiano che, accompagnato dai tedeschi, da un podio improvvisato chiede se i soldati vogliono combattere per i tedeschi contro il nemico comune: “Ma quale nemico comune, mi domando. Il fascismo prima, i tedeschi poi sono i nostri nemici. Contro di essi sempre, contro altri mai, tutti si saranno fatti questo ragionamento”, scriverà sul suo diario.
In ogni angolo del cortile della caserma c'è una mitragliatrice che punta sui soldati: non possono assolutamente muoversi, pena la morte. Ma la mattina seguente alcuni soldati riescono a scavalcare il muro e a scappare, anche Osvaldo ci prova ma viene fermato. Adesso i tedeschi raddoppiano la sorveglianza.
Distrutto dal dolore al piede e dalla tristezza, vaga per la caserma e incontra un ufficiale medico, gli fa vedere la ferita e questo gli permette di farsi ricoverare in infermeria.
Tutti sono trasferiti in Germania come prigionieri e quindi, per decisione di Hitler, come Internati Militari Italiani (IMI) non hanno lo status di prigionieri di guerra, non rientrano nella Convenzione Internazionale di Ginevra, non hanno alcun diritto e nemmeno possono godere dell'assistenza della Croce Rossa Internazionale.
Sono di fatto schiavi, destinati al lavoro coatto come forza lavoro per l'economia del Terzo Reich. In 650.000 diranno di no, in 50.000 moriranno di stenti e di fame nei campi. Nei vagoni, che sono come carri bestiame, il caldo è soffocante, in pochi minuti sono madidi di sudore. Da una piccola fessura del vagone Osvaldo vede il cielo, un piccolo triangolo di cielo azzurro “potevi essere il cielo di Firenze se tutto andava bene, Firenze città di sogno quanto sei bella, quanto sei cara, con tutto quello che di bene di infinitamente caro racchiudi in te”.
Dopo quattro giorni di viaggio arriva al campo di internamento Stalag XI B per sottufficiali e militari di truppa di Fallingbostel, un piccolo paese della Bassa Sassonia. Il comando è ad Hannover e il campo è esteso e circondato da filo spinato. Ha moltissime baracche, ognuna ha dodici stanze e ogni stanza ha dodici letti a castello a tre piani, non ci sono materassi, solo nude assi di legno. Dopo i primi dieci giorni Osvaldo si riprende.
Il cibo è pane nero e duro e una zuppa acquosa. Gli fanno le fotografie per le schede anagrafiche della Croce Rossa Internazionale. A Osvaldo viene assegnato il numero 162343. Quel numero, urlato in tedesco, è da imparare a memoria. Gli chiedono qual è il suo mestiere e, dopo due giorni, è spedito con altri 140 compagni in una fabbrica di aeroplani ad Hameln, una cittadina a 40 minuti da Hannover. Il lavoro, anche se di dodici ore al giorno, non è molto duro, è al montaggio, ma la fame lo attanaglia, non lo abbandona mai quindi mangia anche i torsoli di cavolo, lo scarto delle cucine. Un giorno si infetta un callo della mano, che si gonfia enormemente. Osvaldo ha la febbre, lo riportano a Fallingbostel, a quello che sperava fosse un ospedale, in realtà sono dieci baracche fatiscenti, con dei miseri letti con della paglia sopra. Comincia l'agonia per la fame, per il freddo e per il dolore della ferita. L'unica consolazione è che trova un amico fiorentino.
Nell'ospedale c’è il mercato nero, si vende di tutto per non morire di fame, con infermieri e altri malati, abili a commerciare con i prigionieri francesi del vicino campo, dove c'è di tutto, grazie ai pacchi degli americani e della Croce Rossa Internazionale. Osvaldo vende tutto per sopravvivere, gli rimangono solo gli stracci. Con l'aiuto di un bravo infermiere, la mano guarisce e così riprende a lavorare. Stavolta è per le strade di Hannover a rimuovere macerie e cadaveri: dieci ore col badile, nel freddo e sotto i bombardamenti. La mano si rigonfia e lo rimandano all'ospedale, lo pesano, il risultato è impressionante: Osvaldo pesa solo 49 chili. Sotto quel peso, i prigionieri sono mandati alla “baracca dell'ingrassamento” al campo francese dove addirittura il cibo è buttato via. Da lì riesce a procurare un bidone di rancio e qualche cicca.
Sotto il peso della fatica, della fame, della lontananza da casa, determinati dalla detenzione nazista, gli IMI sono incalzati dai fascisti che cercano di farli aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Questo è il testo del giuramento: “Aderisco all'idea repubblicana dell'Italia fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituente nuovo esercito Italiano del Duce senza riserva anche sotto il comando supremo tedesco contro il comune nemico dell'Italia repubblicana fascista del Duce e del grande Reich Germanico”. Osvaldo non giura, resiste al ricatto nazista. Nei campi c'è sempre una cassetta in cui deporre la propria adesione.
Osvaldo dopo quaranta giorni esce dall'ospedale e viene inviato in una miniera di sale profonda 700 metri. Deve affrontare sette ore di lavoro ogni giorno, sotto terra, con un caldo tremendo e con la polvere del sale che si attacca alla pelle e irrita le narici. I prigionieri sono guardati a vista da un tedesco, che li bastona se non lavorano abbastanza. Osvaldo è debole, non riesce a produrre quanto vogliono, così lo spediscono più su, a 580 metri. L'aria è più fresca e ci trascorre 15 giorni. Il capo è un tedesco, comunista, con cui fa amicizia e parla, a cenni, di politica. Gli fa avere ogni giorno una buona colazione e così la salute di Osvaldo migliora ma la buona fortuna dura poco, perché il tedesco va in pensione. Osvaldo torna a patire ogni genere di umiliazione, con innumerevoli bastonature.
Un giorno arriva una sorpresa: la prima lettera dalla moglie Danila, “una grande gioia solo inimmaginabile per uno che soffre come ho sofferto”. Osvaldo non sta nella pelle. Prima di leggerla, la tiene in mano 5 minuti, poi la apre e tutto l'amore per la moglie e la figlia Gianna esplode. Per la Pasqua del 1944 riceve dalla famiglia un pacco con cibo e una fotografia della piccola Gianna “bella come io la volevo, come non ardivo immaginare. Grandi lucciconi di felicità infinita del cuore e dello stomaco assaggiare quella roba che è stata toccata e preparata da voi che amo”.
Per sfuggire al lavoro massacrante in miniera Osvaldo è tornato a lavorare a 700 metri. Dalla disperazione si getta dell'acqua bollente su un piede e così passa un mese a riposo. La liberazione è vicina, il giorno 7 aprile 1945, sabato notte, Osvaldo con altri prigionieri è costretto dai tedeschi in fuga a marciare fuori dal campo perché gli americani sono alle porte. Dopo due giorni e una notte di cammino, fugge dalla colonna e si nasconde con altri compagni in una capanna nel bosco, in attesa della liberazione.
Il campo di Fallingbostel viene liberato il 16 aprile 1945. Osvaldo pesa 47 chili, è al limite della sopravvivenza. Non potendo tornare a casa in queste condizioni, rimane con gli Alleati in un ospedale per reduci. S'incammina per l'Italia il 1 settembre 1945.
Dopo quattro giorni di viaggio arriva al campo di internamento Stalag XI B per sottufficiali e militari di truppa di Fallingbostel, un piccolo paese della Bassa Sassonia. Il comando è ad Hannover e il campo è esteso e circondato da filo spinato. Ha moltissime baracche, ognuna ha dodici stanze e ogni stanza ha dodici letti a castello a tre piani, non ci sono materassi, solo nude assi di legno. Dopo i primi dieci giorni Osvaldo si riprende. Il cibo è pane nero e duro e una zuppa acquosa. Gli fanno le fotografie per le schede anagrafiche della Croce Rossa Internazionale. A Osvaldo viene assegnato il numero 162343. Quel numero, urlato in tedesco, è da imparare a memoria. Gli chiedono qual è il suo mestiere e, dopo due giorni, è spedito con altri 140 compagni in una fabbrica di aeroplani ad Hameln, una cittadina a 40 minuti da Hannover. Il lavoro, anche se di dodici ore al giorno, non è molto duro, è al montaggio, ma la fame lo attanaglia, non lo abbandona mai quindi mangia anche i torsoli di cavolo, lo scarto delle cucine. Un giorno si infetta un callo della mano, che si gonfia enormemente. Osvaldo ha la febbre, lo riportano a Fallingbostel, a quello che sperava fosse un ospedale, in realtà sono dieci baracche fatiscenti, con dei miseri letti con della paglia sopra. Comincia l'agonia per la fame, per il freddo e per il dolore della ferita. L'unica consolazione è che trova un amico fiorentino. Nell'ospedale c’è il mercato nero, si vende di tutto per non morire di fame, con infermieri e altri malati, abili a commerciare con i prigionieri francesi del vicino campo, dove c'è di tutto, grazie ai pacchi degli americani e della Croce Rossa Internazionale. Osvaldo vende tutto per sopravvivere, gli rimangono solo gli stracci. Con l'aiuto di un bravo infermiere, la mano guarisce e così riprende a lavorare. Stavolta è per le strade di Hannover a rimuovere macerie e cadaveri: dieci ore col badile, nel freddo e sotto i bombardamenti. La mano si rigonfia e lo rimandano all'ospedale, lo pesano, il risultato è impressionante: Osvaldo pesa solo 49 chili. Sotto quel peso, i prigionieri sono mandati alla “baracca dell'ingrassamento” al campo francese dove addirittura il cibo è buttato via. Da lì riesce a procurare un bidone di rancio e qualche cicca. Sotto il peso della fatica, della fame, della lontananza da casa, determinati dalla detenzione nazista, gli IMI sono incalzati dai fascisti che cercano di farli aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Questo è il testo del giuramento: “Aderisco all'idea repubblicana dell'Italia fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituente nuovo esercito Italiano del Duce senza riserva anche sotto il comando supremo tedesco contro il comune nemico dell'Italia repubblicana fascista del Duce e del grande Reich Germanico”. Osvaldo non giura, resiste al ricatto nazista. Nei campi c'è sempre una cassetta in cui deporre la propria adesione. Osvaldo dopo quaranta giorni esce dall'ospedale e viene inviato in una miniera di sale profonda 700 metri. Deve affrontare sette ore di lavoro ogni giorno, sotto terra, con un caldo tremendo e con la polvere del sale che si attacca alla pelle e irrita le narici. I prigionieri sono guardati a vista da un tedesco, che li bastona se non lavorano abbastanza. Osvaldo è debole, non riesce a produrre quanto vogliono, così lo spediscono più su, a 580 metri. L'aria è più fresca e ci trascorre 15 giorni. Il capo è un tedesco, comunista, con cui fa amicizia e parla, a cenni, di politica. Gli fa avere ogni giorno una buona colazione e così la salute di Osvaldo migliora ma la buona fortuna dura poco, perché il tedesco va in pensione. Osvaldo torna a patire ogni genere di umiliazione, con innumerevoli bastonature. Un giorno arriva una sorpresa: la prima lettera dalla moglie Danila, “una grande gioia solo inimmaginabile per uno che soffre come ho sofferto”. Osvaldo non sta nella pelle. Prima di leggerla, la tiene in mano 5 minuti, poi la apre e tutto l'amore per la moglie e la figlia Gianna esplode. Per la Pasqua del 1944 riceve dalla famiglia un pacco con cibo e una fotografia della piccola Gianna “bella come io la volevo, come non ardivo immaginare. Grandi lucciconi di felicità infinita del cuore e dello stomaco assaggiare quella roba che è stata toccata e preparata da voi che amo”. Per sfuggire al lavoro massacrante in miniera Osvaldo è tornato a lavorare a 700 metri. Dalla disperazione si getta dell'acqua bollente su un piede e così passa un mese a riposo. La liberazione è vicina, il giorno 7 aprile 1945, sabato notte, Osvaldo con altri prigionieri è costretto dai tedeschi in fuga a marciare fuori dal campo perché gli americani sono alle porte. Dopo due giorni e una notte di cammino, fugge dalla colonna e si nasconde con altri compagni in una capanna nel bosco, in attesa della liberazione. Il campo di Fallingbostel viene liberato il 16 aprile 1945. Osvaldo pesa 47 chili, è al limite della sopravvivenza. Non potendo tornare a casa in queste condizioni, rimane con gli Alleati in un ospedale per reduci. S'incammina per l'Italia il 1 settembre 1945.
Torna a Firenze nel novembre 1945. La famiglia abita, adesso, in via Ugo Foscolo 7 e non si aspetta di rivederlo, credendolo, ormai disperso. Al rientro, tutta la famiglia e il quartiere scoppiano di felicità. Riprende il suo lavoro d'argentiere nella Ditta Corti e Biagioni.
Nel 1947 subentra a Biagioni e la ditta diventa Corti e Benvenuti con una decina di operai. Il suo motto è “Le cose belle non sono perfette, sono uniche”. La ditta è ancora oggi un'eccellenza dell'artigianato fiorentino. Si impegna nel PCI, è uno dei fondatori della Casa del popolo di Porta Romana e della Sezione Potente del PCI.
Muore il 20 novembre 1970 per l'aggravarsi della malattia contratta nel campo d'internamento. Riposa al cimitero di Scandicci.
- Mario Avagliano e Marco Palmieri, "Gli Internati Militari Italiani. Diari e lettere dai lager nazisti: 1943-1945", Einaudi, 2009
- Osvaldo Benvenuti, "Diario", dattiloscritto, per gentile concessione dei figli Gianna, Gianni e Franca Benvenuti
- Scheda di Osvaldo Benvenuti in: Alberto Alidori, "Liberare Firenze per liberare l'Italia. Chi erano i partigiani. Memorie 1943-1945", a cura di Luca Giannelli, Scramasax, 2022
- "Guerra e Liberazione a Firenze 1944-1945. Per una guida alle fonti bibliografiche e documentarie in SDIAF", Tipografia comunale, 2015
- Stefano Gallerini, "Antifascismo e Resistenza in Oltrarno. Storia di un quartiere di Firenze", Zella 2019
- Otello Giannini, "Tredici nomi in un cappello", Mediolanum, 1987
- Silvano Lippi, "39 mesi. 60 anni dopo", Multimage, 2012 con DVD
- Primo Levi, "La tregua", Einaudi, 1997
- Alessandro Natta, "L'altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania", Einaudi, 1987
Il rifiuto di aderire alla Repubblica Sociale
Memorie di Osvaldo Benvenuti, internato militare
Per gentile concessione della famiglia Benvenuti
Ci accomodiamo alla meglio sotto un porticato ma non ci danno pace, ci adunano nel grande piazzale della caserma, si vede movimento in giro, difatti arriva un maggiore nostro, accompagnato da soldati tedeschi, sale su un podio improvvisato e parla con parole rotte dalla commozione con una manifesta paura di tutto quello che accade. Con parole non adatte, ci chiede se vogliamo ancora combattere per i tedeschi contro il nemico comune, ma quale nemico comune mi domando. Il fascismo prima, i tedeschi poi sono i nostri nemici. Contro di essi sempre, contro altri mai, tutti si saranno fatti questo ragionamento. Nessuno si è mosso e il piagnucoloso ufficiale continua la sua nenia, pensateci ragazzi, pensateci bene a quel che fate in questo momento, i più vicini cominciano a mormorare, uno si avanza, e domanda da chi saremmo comandati in caso di un”sì”, risponde che non lo sa, si allontana brevemente per discutere con ufficiali tedeschi, torna e dice, in primo tempo saremmo inquadrati nelle forze germaniche, con la loro divisa, sotto il loro ufficiali dopo forse da ufficiali della milizia, silenzio solo un silenzio sepolcrale risponde, il maggiore parte.
Ci adunano nel cortile grande della caserma, una mitragliatrice in ogni angolo, con l'ordine di non muoversi, pena la morte, passa una notte tremenda, una notte che non scorderò mai.
L'attesa della posta
Memorie di Osvaldo Benvenuti, internato militare
Per gentile concessione della famiglia Benvenuti
la posta comincia ad arrivare, l'attesa è tremenda, il cuore soffre continuamente, la mia piccola che non potrò vedere fino al mio ritorno, la mia felicità interrotta, pene tremende che mi incidono nell'anima solchi incancellabili più forti e dolorosi di qualsiasi dolore materiale, invoco l'arrivo di un pacco non tanto per la gioia dello stomaco tanto per la gioia di toccare e gustare roba vista e baciata da voi tutti, miei cari, da te Danila mia, che il suono della solita armonia ti porta davanti ai miei occhi più bella, più cara, più amata e desiderata di sempre, ogni notte sogno la mia piccola nelle braccia tue e della mia povera vecchia, un tormento continuo che mi logora e penso che gli anni cominciano ad essere troppi sulle spalle dei miei cari vecchi e una paura grande regna in me, paura che non possa rivederti più, che non possa vedere nei loro occhi la gioia per il mio ritorno, altra immensa pena i bombardamenti, altra i fascisti che certo hanno infierito su qualche membro della mia famiglia,...io spesse volte per tutte queste pene, per tutti i maltrattamenti, la fame, il pericolo delle malattie ed altro mi domando se ritornerò in Italia, attimi di smarrimento ma poi la forza ritorna, una forza grande, sono gli occhi tuoi Danila mia, la piccola mia che sento nel mio sangue, le preghiere tue, oh mamma, la tua persona nome mio.