La tipografia, i fogli clandestini e l'attività di propaganda nelle fabbriche
Aldo Dugini nasce a Terranuova Bracciolini in provincia di Arezzo l’11 dicembre 1917. Il padre Giuseppe e la madre Maria Luisa Sansoni sono piccoli artigiani. Ha un fratello di nome Dino. Aldo abita in via della Cernaia e fin da ragazzo è di sentimenti antifascisti.
Aldo Dugini è arruolato come militare nel X reggimento lancieri. Con la notizia dell'armistizio dell’8 settembre 1943 il reggimento, che in quel momento è a Tivoli, sbanda e Aldo, a piedi e a tappe, ritorna a Firenze, mezzo vestito da militare e mezzo da borghese. Aldo diventa tipografo e inizia a diffondere il periodico clandestino “L'azione comunista”, l'organo della Federazione comunista fiorentina che esce almeno una volta al mese, fondato da Spartaco Lavagnini.
La tipografia dove si stampa è quella di Bindo Maccanti, in via del Palazzo Bruciato, nel quartiere di Rifredi. In tipografia ci sono oltre a Bindo e Aldo anche Leonardo Arrighi “Leone”, Arrigo Aiazzi, Bruno Biondi e Giuseppe Rossi “Giovanni”, che dirige il periodico.
L'ingresso della tipografia è direttamente sulla strada mentre separato, in un grande capannone, c'è il laboratorio. A difesa, su un bancone, un fucile mitragliatore posto su un treppiede. Oltre a “L'azione comunista”, la tipografia stampa manifesti, appelli e ogni genere di propaganda per incitare alla lotta di Resistenza.
L'attività di stampa clandestina inizia ad agosto 1943 e nella notte tra l'8 e il 9 settembre stampa manifestini per spronare i soldati ad unirsi al popolo e combattere contro i nazisti. Il 9 settembre “L'azione comunista” è distribuita per le vie del centro. La tiratura si aggira tra le 4.000 e le 5.000 copie ma in alcuni momenti arriva fino a 10.000. Il comitato di redazione clandestino, diretto da Giuseppe Rossi, è composto da Orazio Barbieri, Romano Bilenchi, Fosco Frizzi, Romeo Baracchi, Luigi Sacconi e si riunisce in via Paisiello, in via Ghibellina, in borgo Santa Croce, in via Giotto 33, nella casa di Luigi Sacconi.
La stampa clandestina è fondamentale per l'azione della Resistenza, tanto che già nel settembre 1943 il comando tedesco comunica che chiunque ne venga trovato in possesso sarà condannato alla pena di morte. Tra i primi manifesti prodotti c'è quello del 12 dicembre 1943 in cui i fiorentini sono invitati a disertare i locali pubblici come forma di dissenso nei confronti della fucilazione, appena avvenuta, di cinque cittadini dopo l'uccisione del colonnello Gobbi ad opera dei gappisti fiorentini.
Per consentire la stampa, i caratteri sono sempre composti a rovescio. Nella tipografia di Bindo solo la persona che si occupa dell'impaginazione tiene a portata di mano una scatola di caratteri e, quando sente arrivare qualcuno, è messa sopra ai materiali clandestini appena composti così da non far capire di cosa si tratta.
Per distribuire il materiale Aldo, con la bicicletta o con il triciclo, lo porta in vari luoghi convenuti tra i quali un deposito generale, nell'officina di via Palazzuolo, dove lavora Arrigo Aiazzi. Da lì, attraverso staffette che non si conoscono tra loro, è smistato in vari depositi e fatto circolare in città, nel circondario e in Toscana. Il sistema è costruito in modo che non si conosca a chi è indirizzata la stampa e il luogo della stampa. Meno si è a conoscenza meno si può dire sotto tortura, in caso di cattura dai nazifascisti.
La notte in cui i tedeschi fanno saltare i ponti, fra il 3 e il 4 agosto 1944, Aldo è in tipografia con Bindo Maccanti e Fernando Forconi. “L'azione comunista”, dal 1° all'11 agosto, esce in formato volantino ed è redatta dal professor Luigi Sacconi all'Istituto di chimica in via Gino Capponi. Le notizie arrivano grazie ad una ricetrasmittente.
Saltati i ponti, la città è spaccata in due. La nuova linea del fronte è il torrente Mugnone e la tipografia si ritrova in territorio nemico. Agli angoli delle principali strade di Rifredi i carri armati tedeschi Tiger controllano tutto e così in tipografia si monta la guardia, con turni di sei ore. Romano Bilenchi e Aldo Dugini, asserragliati in tipografia, decidono, tre giorni dopo la distruzione dei ponti, di capire quanto è grave la situazione. Hanno sentito una grossa e cupa esplosione, con i sassi arrivati fino a Rifredi ma vogliono capire e valutare bene cosa fare. Escono a controllare se il Tiger è ancora all'inizio di via dello Statuto. Sono le 8 di mattina, escono senz'armi, guardinghi e arrivano in piazza Tanucci.
La piazza pare deserta ma, all'inizio di via Corridoni, notano due tedeschi con le biciclette appoggiate al muro. Parlano con un uomo e una donna alla finestra, forse i padroni del bar sotto. L'uomo e la donna voltano lo sguardo su Romano e Aldo, i tedeschi se ne accorgono, girano anche loro lo sguardo e li vedono. Tutto accade rapidamente: Aldo e Romano scappano mentre i tedeschi sparano loro addosso. Dalle finestre la gente inveisce contro i partigiani “Mascalzoni, vigliacchi. Rovinate Rifredi!”.
Alla fine di via Corridoni, forse, c'è la salvezza: una casa con un portone spalancato, un corridoio lungo e in fondo un'altra porta, aperta, che si affaccia sulla campagna. Stanno per entrare, quando un giovane, in calzoncini corti turchini e una camicia bianca, con una borsa di pomodori, patate e verdure, corre rasente il muro, taglia loro la strada, entra nella casa e chiude il portone. Aldo e Romano sono senza scampo con alle spalle, a pochi passi, i tedeschi, che sorpresi smettono di sparare. Aldo e Romano approfittano di quell'attimo e riprendono la fuga, si gettano dietro un cumulo di ghiaia e lì rimangono nascosti tutto il giorno.
Tornano alla tipografia solo la sera. I compagni, felici di rivederli, raccontano che Bindo Maccanti e Fernando Forconi, avendo sentito gli spari, sono usciti per capire che fine avessero fatto. Sono incappati nei due tedeschi, che li hanno derubati degli orologi, delle fedi matrimoniali e delle penne stilografiche ma li hanno rilasciati, perché troppo vecchi per essere deportati in Germania.
In quelle settimane la casa di Aldo in via della Cernaia è un rifugio della Resistenza. Una mattina si avvicina alla soglia di casa un giovane del Partito d'Azione che Bilenchi conosce e li avvisa che in via delle Cinque Giornate 4 c'è un ufficiale badogliano che sta morendo di fame.
Aldo può portargli solo un po' di uova conservate sotto la calce e della farina gialla ma è dubbioso, potrebbe trattarsi di un'imboscata. Con Bilenchi decide di rischiare e, all'imbrunire, escono rasentando i muri e attenti a scorgere i tedeschi. Stanno per svoltare in via Crispi quando una donna dalla finestra fa un fischio, una pallottola sfiora la testa di Bilenchi, rimbalzando sul muro e lasciandogli una striscia bianca nei capelli. Solo per un soffio non è stato colpito. Ritornano a casa e ci riprovano il giorno dopo, questa volta riescono ad arrivare a destinazione.
L'ufficiale è in un villino a due piani. Bilenchi va per primo e avverte Aldo “Se tossisco o faccio cenno, tira fuori la pistola”. L’ufficiale è insieme a una ragazza, entrambi sono giovani, biondi ed eleganti e lei viene presentata come la sua fidanzata. Nessuno dei due però pare soffrire la fame. Il villino era di un console della milizia fascista, Aldo l'ha capito da un album di fotografie in un cassetto. Inoltre l’ufficiale racconta che si è nascosto per non farsi deportare al nord dai tedeschi e dice di conoscere comunisti come Marta Chiesi, De Grada, Susini e Bilenchi stesso e che li ha incontrati nel convento di San Marco, alle riunioni con padre Lupi, che nasconde ebrei e gappisti, vestendoli da domenicani. Ormai è certo, il giovane badogliano è un impostore! Aldo Dugini sta per estrarre la pistola, quando Bilenchi dice “Noi non siamo comunisti. Delle persone che ha nominato lei, conosco soltanto Bilenchi per altre ragioni: se non sbaglio si chiama Romano ed è alto e biondo”. Il falso badogliano annuisce ma Bilenchi è tutt'altro che alto e biondo e questo conferma che si tratta di un impostore.
Firenze è libera ma la guerra non è finita e la presenza nazifascista è ancora in città. Il 7 settembre 1944, è il giorno scelto per la consegna delle armi agli Alleati alla Fortezza da Basso, è il giorno della smobilitazione partigiana.
In questa occasione Aldo e Romano rivedono il ragazzo con i calzoncini corti che porta al collo il fazzoletto da partigiano. I due si sorprendono e si scagliano contro di lui e glielo strappano, gridandogli “truffatore bugiardo”. Ne nascerà una rissa e il ragazzo sarà portato via. In quei giorni Bilenchi rivede per ben due volte anche il giovane badogliano. La prima andando a trovare Bruno Sanguinetti all'albergo Melegnano, la seconda in questura, occupata dai partigiani, circondato da una ventina di compagni. “Chi è?” chiede Bilenchi. “Un seviziatore della Banda Koch”, rispondono i partigiani.
Dopo la Liberazione di Firenze, Aldo si arruola nei Gruppi di combattimento del Corpo Volontari della Libertà, impegnati in vari reggimenti a fianco degli eserciti alleati per la liberazione delle regioni del nord. Si sposa con Immacolata Gulli detta Concetta, sarta molto apprezzata nelle case di moda fiorentine.
Negli anni '50 nascono due figlie. Finita la guerra, Aldo lavora presso la Federazione fiorentina del PCI, sempre nell'ambito della stampa comunista e a supporto dei dirigenti politici divenendo riferimento per le giovani generazioni, testimone di ideali di giustizia, libertà, umiltà e serietà. Muore il 14 luglio 2005. La sua salma riposa al cimitero di Rifredi insieme a quella di sua moglie Concetta.
- Scheda di Aldo Dugini in Alberto Alidori, "Liberare Firenze per liberare l'Italia. Chi erano i partigiani. Memorie 1943-1945", a cura di Luca Giannelli, Scramasax, 2022
- Orazio Barbieri in "I compagni di Firenze. Memorie della Resistenza 1943/1944", Istituto Gramsci Toscano, 1984, pp. 1-18
- Orazio Barbieri, "Giuseppe Rossi. L'uomo e il suo tempo", Vangelista, 1989
- Romano Bilenchi, "Due ucraini e un falso partigiano", in "Tre racconti", Scheiwiller, 1989
- Id., "I tedeschi" in "Tre racconti", Scheiwiller, 1989
- Id., "Due ucraini e un falso partigiano" in "Corriere della Sera", 25 maggio 1989
- Luigi Sacconi in "I compagni di Firenze. Memorie della Resistenza 1943/1944", Istituto Gramsci Toscano, 1984, pp. 371-394
- "Stampa clandestina", in Enzo Collotti, Renato Sandri, Frediano Sessi, "Dizionario della Resistenza", Torino, Einaudi, 2006, pp. 633-654
La stampa clandestina, la tipografia di Bindo Maccanti
Memorie di Orazio Barbieri, partigiano e membro della delegazione toscana del Comando generale delle Brigate Garibaldi
Ricordo bene quel manifestino: carta gialla e inchiostro nero, dal titolo “Resistere all'invasore”. Lo stampammo in 20.000 copie nella tipografia di Bindo Maccanti in via del Palazzo Bruciato di cui più avanti dirò. Furono preparate nove squadre munite di pentoli, pennelli e colla. Studiati i dettagli dell'operazione, disponemmo perché il lavoro di affissione avesse inizio alle 20.30 fino alle 20.55, cioè prima dell'inizio del “coprifuoco”, prima delle ore 21.
Tutte le squadre operarono disciplinatamente affiggendo i manifestini da Porta al Prato alle Cure e a Porta Romana, al “Bottegone” in via Martelli e al cinema Gambrinus. Soltanto una squadra rientrò più tardi, mettendoci in allarme: era andata ad affiggere i manifestini alla prefettura!
Questa attività redazionale e di organizzazione la conducemmo fino alla Liberazione.
Lettura tratta dal libro “I compagni di Firenze. Memorie della Resistenza (1943/1944)” pubblicato dall’Istituto Gramsci Toscano nel 1984.
La distribuzione della stampa clandestina
Memorie di Orazio Barbieri, partigiano e membro della delegazione toscana del Comando generale delle Brigate Garibaldi
L'organizzazione per la distribuzione presentava i maggiori pericoli.
Dalla tipografia si trasferiva quasi tutto il materiale stampato ad un deposito generale, al cui trasporto provvedevano i fratelli Aldo e Dino Dugini con la bicicletta o col triciclo, sempre con grande rischio.
Il deposito era nell'officina in via Palazzuolo ove lavorava Arrigo Aiazzi. Di lì, attraverso staffette che non si conoscevano fra loro, veniva smistato: ad un deposito del circondario, ad uno per la città e ad uno per la provincia e la Toscana che neanche io sapevo dove si trovavano. Da quei depositi veniva fatta la diffusione capillare. Insomma, noi non sapevamo chi riceveva quella stampa e chi la riceveva non sapeva dove era stata stampata.
Un momento critico lo passammo dopo la tragica irruzione della polizia di Carità che riuscì il 7 giugno a mettere le mani su Radio Co.Ra., l'apparato che aveva svolto un prezioso e coraggioso servizio di collegamento con gli Alleati, creato e diretto da Enrico Bocci. Tutti furono arrestati e torturati e quasi tutti uccisi.
Lettura tratta dal libro “I compagni di Firenze. Memorie della Resistenza (1943/1944)” pubblicato dall’Istituto Gramsci Toscano nel 1984.