Disobbedienza civile in un paese occupato, la difesa delle fabbriche e dei macchinari durante la battaglia di Firenze, la deportazione
La parola sciopero origina dal latino ex operare, uscire dal lavoro, smettere di lavorare. Ma cosa significa scioperare in un paese occupato, in guerra e sotto dittatura?
Non è semplicemente un gesto per interrompere la produzione, è un grande atto di coraggio e di disobbedienza civile.
Gli operai e le operaie delle fabbriche di Firenze e della provincia lo fecero il 3 e il 4 marzo 1944, all’interno del grande sciopero lanciato dalle forze antifasciste in tutto il centro-nord occupato dalle truppe tedesche.
Tra le fabbriche: la Galileo, la Pignone, la Manifattura Tabacchi, la Cipriani e Baccani, la Manetti e Roberts, l'Istituto Farmaceutico Militare, la Superpila, la Muzzi, la Saivo, la Passigli, la Stice, la Siette, la Selt-Valdarno, la Ferrero, la Mannaioni, la Carapelli, la FIAT, le Officine ferroviarie di Porta al Prato e del Romito.
Nelle fabbriche, sempre sorvegliati e attenzionati da spie e da padroni collaborazionisti, in particolare gli uomini del Partito Comunista organizzarono cellule clandestine, che riuscirono a diffondere giornali e stampa per incitare alla Resistenza.
Le cellule erano rappresentate da alcuni dei loro membri nel Comitato Settore Industriale (CSI), che ne coordinava le azioni. Il CSI era diretto da Mario Fabiani, il primo Sindaco eletto dopo le prime elezioni amministrative della Firenze liberata nel novembre del 1946. Fu lui a chiedere al Comitato, su indicazione del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), di organizzare lo sciopero generale, che ebbe la sua prova generale alla Pignone il 27 gennaio 1944. La prova, scattata in mensa all'ora dell'intervallo al grido di “Vogliamo più paga e più pane”, riuscì in pieno, nonostante l'intervento del prefetto Manganiello.
Agli scioperi del 3 e 4 marzo 1944 parteciparono centinaia di operai e operaie, il lavoro si fermò alle 13, nonostante le minacce dei militi della Repubblica Sociale Italiana. Il 4 marzo tornarono sul luogo di lavoro ma nessuno lavorò, attuando una sorta di “sciopero bianco”.
Lo sciopero rientrava in un'ampia azione politica di Resistenza, con i partigiani dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP) e delle Squadre di Azione Patriottica (SAP) a fiancheggiarlo. I partigiani incendiarono gli schedari dell'Unione dei Sindacati fascisti, distruggendo 4.000 schede di operai, in procinto di essere deportati, fecero saltare i binari dei tram in prossimità dei depositi delle Cure, di Monticelli e di via Aretina, si nascosero in punti strategici di Firenze pronti a intervenire. Tutto riuscì, dimostrando l'unione d'intenti tra le forze partigiane e gli operai.
Fabbrica e Resistenza erano unite dall'obiettivo di chiudere con il fascismo e con la guerra.
Ma l’azione era stata troppo eclatante: dopo quello degli olandesi contro la deportazione dei connazionali ebrei, l’unico sciopero nell’Europa occupata dai nazisti. La punizione doveva essere esemplare affinché nessuno facesse altrettanto e per volontà di Hitler, immediatamente dopo gli scioperi, scattarono gli arresti e le deportazioni.
I deportati politici, definiti “Schutzhaft”, fino ad allora erano i partigiani, gli antifascisti, i sospetti fiancheggiatori della Resistenza e i renitenti alla leva. Tra gli "Schutzhaft" si fecero ora rientrare anche coloro che avevano praticato forme di resistenza civile, tra questi gli operai, che avevano partecipato agli scioperi del 1944. Nell'area di Firenze, Empoli e Prato, la più industrializzata della Toscana, furono rastrellati e deportati 338 uomini, 84 a Firenze. Partirono l'8 marzo 1944 dalla stazione di Santa Maria Novella su vagoni come carri bestiame, con il trasporto numero 32. Arrivarono al campo di concentramento nazista di Mauthausen, nell'Austria annessa al Reich, l'11 marzo 1944. Sopravvissero in 64. Mario Piccioli, che era andato a cercare la mamma operaia arrestata e poi liberata, fu uno di loro.
Le Memorie di Resistenza fiorentina danno voce alle fabbriche.
La parola "sciopero" è associata alla Biblioteca Buonarroti.