L'ultima notte di Leandro Corona, Ottorino Quiti, Guido Targetti, Antonio Raddi e Adriano Santoni
Mercoledì 22 marzo 1944
Ai piedi della Curva Ferrovia, sul lato sud dello stadio si sta per consumare una strage.
Cinque giovani di un gruppo di circa trenta renitenti alla leva, rastrellato a Vicchio da un reparto della Guardia Nazionale Repubblicana fiorentina, coadiuvato da una pattuglia della Ettore Muti e da alcune unità tedesche, sono davanti al plotone d'esecuzione e stanno per essere fucilati al petto, come recita il bando di reclutamento.
I cinque, insieme, fanno poco più di 100 anni.
Il rastrellamento di Vicchio avviene dopo l'attacco da parte della Brigata Garibaldi Faliero Pucci alla caserma di Vicchio e della successiva occupazione partigiana del paese. L'azione è del 6 marzo 1944.
Le unità nazifasciste, incapaci di catturare i partigiani, scatenano la loro ira sulla popolazione, arrestando e picchiando chiunque sia sospettato di averli fiancheggiati. Alcuni giorni prima dell'azione, il 25 febbraio, sempre a Vicchio, 250 contadini si erano riuniti sotto il Palazzo comunale, protestando contro la consegna di altro cibo all'ammasso.
I trenta giovani rastrellati sono trasportati a Firenze al carcere delle Murate e giudicati dal Tribunale Speciale Militare fiorentino, insediato nel febbraio 1944 dal Generale di Corpo d'armata Enrico Adami Rossi e presieduto dal generale Raffaele Berti.
Dei trenta arrestati, il Tribunale, all'inizio, ne condanna sette, poi ne grazia due: Mariano Raddi e Guglielmo Bellesi. Condannati a morte ne rimangono cinque: Leandro Corona, Ottorino Quiti, Guido Targetti, Antonio Raddi e Adriano Santoni.
L'intento del Tribunale Militare è chiaro: punire senza pietà la renitenza alla leva e terrorizzare la popolazione. Firenze deve imparare che non si può dire di NO alla Repubblica di Salò.
Il plotone di esecuzione è composto da giovani reclute della Caserma del Poggio Imperiale, sopra Porta Romana, scelti perché bravi a sparare. Altre reclute sono chiamate ad assistere.
Il capitano di picchetto Armando Ciccarone dà l'ordine di fucilazione. Alcune reclute del plotone sparano in aria, altre svengono, i condannati piangono, gridano, invocano la mamma.
Lo strazio è nell'aria di quella mattina di primavera. Guido, Adriano e Antonio muoiono subito, Leandro e Ottorino sono finiti a colpi di pistola dal capitano di picchetto Armando Ciccarone e dal maggiore Mario Carità. Ottorino è l'ultimo a morire.
Il cappellano militare Tenente Don Angelo Beccherle, poco più grande dei cinque, accompagna le loro salme al cimitero di Trespiano e rientrato all'Ospedale di San Gallo celebra la Santa Messa a loro dedicata.
Finita la Messa, porta il commosso racconto di quelle morti al cardinale Elia Dalla Costa, a cui consegna le lettere di Guido Targetti e di Leandro Corona.
Rocco Silicato, testimone oculare dell'esecuzione, poi partigiano della Brigata Caiani, racconta: “Quiti e Corona continuavano a dimenarsi sulla sedia, a piangere e a urlare nel sangue, finché il capitano di picchetto, insieme al comandante delle SS fiorentine Mario Carità, li finirono a colpi di pistola. È stato il giorno più brutto della mia vita” e ancora “A vent' anni. Avrei potuto esserci io su una di quelle sedie. Quando sono partiti gli spari, non sono riuscito a trattenermi. "Vigliacchi!", ho urlato, "Li vendicheremo!". Il giorno dopo ho preso le mie poche cose e sono scappato in montagna, con i partigiani”.
Rocco ha vissuto a Firenze fino alla sua morte avvenuta nel 2007 e ogni anno ha ricordato quel 22 marzo 1944: “Tutti gli anni, da quando è finita la guerra, il 22 marzo sono lì, sotto la torre di Maratona, a ricordare quella strage assurda. Per me è un obbligo impellente, anche se mi chiedo a chi importi, ormai.».
Silicato è stato tra coloro che ha lavorato perché ai cinque giovani fosse conferita la Medaglia d'oro al valor civile, onorificenza poi consegnata dal Presidente della Repubblica il 25 aprile 2008.
I caduti
Guido nasce a Vicchio di Mugello in provincia di Firenze il 3 settembre 1922.
Il padre Cesare e la madre Anna Roselli hanno otto figli, oltre a Guido: Ida, Lina, Rosa, Mario, Antonio, Vittorio, Raffaello. Il fratello Mario è impiegato a Firenze al Banco di Roma. I Targetti sono mezzadri, hanno un podere vicino a Vicchio del Mugello.
Al momento dell'8 settembre 1943, Guido è militare, come Guardia alla frontiera, a Valdieri, un piccolo paese in provincia di Cuneo ai confini con la Francia.
I Targetti decidono di andarlo a riprendere e la sorella maggiore, Ida, parte per Valdieri dove trova il reparto del fratello completamente allo sbando. Insieme ai due che, vedendosi si abbracciano a lungo, rientra verso Vicchio un giovane commilitone sardo, amico di Guido, Leandro.
Arrivati al podere, i ragazzi si nascondono in un vecchio casolare in località Gattaia per sfuggire ai bandi di reclutamento della Repubblica Sociale Italiana che incombono sulle loro teste.
La delazione di un simpatizzante fascista li fa scoprire e catturare. Sono portati a Firenze e condannati a morte per renitenza alla leva il 21 marzo 1944 dal Tribunale speciale militare fiorentino, con altri cinque giovani di Vicchio: Adriano Santoni, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Marino Raddi e Guglielmo Bellesi.
Gli ultimi due sono poi graziati.
Nel carcere delle Murate Guido vive l'ultima notte della sua vita, assistito insieme agli altri dal cappellano militare tenente Don Angelo Beccherle.
Serio, impavido, senza versare una lacrima, parla e riflette sulla sua morte e fa vedere a Don Beccherle delle fotografie. Dietro una di queste scrive una semplice e commovente dedica ”Targetti Guido, caduto il 22 marzo 1994. Primavera”.
Parla di Mario, il fratello maggiore impiegato a Firenze al Banco di Roma, “S'interesserà di me. Non mi devono fucilare, non ho fatto nulla di male. Ero guardia alla frontiera e non sono mai stato punito.”
Nell'ufficio matricola del carcere delle Murate Guido scrive l’ultima lettera della sua vita.
Nella notte, di tanto in tanto, insieme al cappellano fa coraggio agli altri giovani, anche se teme di non riuscire a mantenersi forte fino alla fine. Scrive ai genitori, raccomandando di pensare a Leandro Corona come a un fratello, e ha un pensiero particolare per la mamma Anna, in ospedale per un tumore e che morirà pochi giorni dopo la fucilazione di Guido.
Consola Leandro Corona che, quasi impazzito, grida di volersi uccidere. Guido lo ferma dicendogli “Noi siamo innocenti, non ci dobbiamo ammazzare, ci ammazzino loro”.
Il direttore del carcere Giovan Battista Mazzarisi conosce la situazione di Guido, è costernato di fronte a tutte e cinque le ingiuste condanne e si impegna per salvare loro la vita.
Beccherle suggerisce al direttore di fare un ultimo tentativo con il cardinale Dalla Costa come mediatore.
Così il direttore fa chiamare padre Carlo Naldi della congregazione dei filippini di San Firenze e con lui va dal cardinale. Sono le 8 della sera del 21 marzo, il tentativo fallisce e i cinque giovani non hanno via di scampo.
Alle 4 circa il cappellano militare Beccherle serve la Santa Messa ai cinque giovani.
Sono tutti seduti, ad eccezione di Guido, presenti anche alcuni secondini e il comandante del carcere.
Tutti ricevono la comunione come viatico e alla fine si riuniscono in cerchio a sedere.
Alle cinque Guido avverte che è meglio prepararsi, l'ora dell'esecuzione è prossima. Consegna al cappellano alcune lettere e il portafoglio.
I cinque ragazzi piangono, Beccherle li abbraccia, li bacia, li sostiene. Una macchina li preleva e li conduce allo stadio, dove nel cortiletto aspettano quasi mezz'ora. Guido riceve insieme ai compagni l'ultima assoluzione da Beccherle, che, con l'aiuto dell'altro cappellano Don Giulio Roberti, benda loro gli occhi.
Siamo vicini alla torre di maratona dello stadio Giovanni Berta. Il plotone è composto da due file di 12 giovani reclute. Sparano. Guido muore subito.
Leandro nasce a Maracalagonis in provincia di Cagliari il 4 maggio 1923. Il padre si chiama Daniele, la madre Maria. È un aviere e a Valdieri, in provincia di Cuneo, è un commilitone di Guido Targetti con cui stringe un legame di amicizia.
Al momento dell'8 settembre 1943, si rifugia presso la famiglia del suo amico commilitone Guido Targetti nei pressi della frazione di Gattaia di Vicchio di Mugello in provincia di Firenze.
Leandro non è né un partigiano né un antifascista ma è arrestato il 12 marzo 1944 in località Collina, frazione di Vicchio, durante un’azione di rastrellamento da parte delle SS Italiane e condannato a morte, perché renitente alla leva.
Il 21 marzo 1944, è l'ultima notte della sua vita, che trascorre nel carcere delle Murate insieme agli altri quattro condannati e al cappellano militare tenente don Angelo Beccherle. È disperato, pensa alla famiglia, si sente male e sviene più volte.
Leandro scrive l'ultima lettera ai genitori, scusandosi per le sue mancanze, li saluta insieme ai nonni, ai fratelli e alla sorella “Non vi angustiate non piangete mi fareste dispiacere perchè sono rassegnato alla volontà del Signore. Per questo sacrificio darà a voi ogni benedizione e a me darà il Paradiso, dove tutti ci ritroveremo”.
Alle 4 circa Don Beccherle recita la Santa Messa ai cinque giovani insieme ad alcuni secondini e al comandante del carcere.
Leandro fa la sua Comunione come viatico e poi sviene.
Quando si riprende si riunisce in cerchio a sedere con gli altri ma l'ultima parte della notte sembra non finire mai. I cinque ragazzi, confortati dal cappellano, cercano di affrontare la tragedia: quanto sarà doloroso morire, chi ci sarà a vedere l'esecuzione, diranno di noi che eravamo dei traditori ma non è vero, siamo innocenti. Non avevamo armi, quando ci hanno arrestati. Come si starà sottoterra?
Alle cinque anche Leandro consegna la lettera e i suoi effetti personali, poi il suono lungo del campanello. È il segnale, la macchina li aspetta per tradurli allo stadio Berta, luogo dell'esecuzione.
Leandro è bendato agli occhi da Don Beccherle. Il plotone, due file di dodici giovani, come lui, è pronto per sparare. Leandro non muore subito. Mentre il cappellano Beccherle somministra l'Olio Santo il giovane sardo ripete “Mamma! Mamma!” È finito a colpi di rivoltella dal Maggiore Mario Carità.
Ottorino nasce a Vicchio di Mugello in provincia di Firenze l’8 settembre 1921, è un contadino. Il padre si chiama Pietro, la madre Luana Rondini. Non si presenta ai bandi di reclutamento per la Repubblica Sociale, è un renitente alla leva. Rastrellato a Vicchio da SS italiane, è portato a Firenze, dove, il 21 marzo 1944, è condannato a morte dal Tribunale speciale militare fiorentino. Passa la sua ultima notte nel carcere delle Murate insieme a Guido Targetti, Leandro Corona, Adriano Santoni e Antonio Raddi. Ottorino è disperato, non si rassegna alla morte, chiede di telefonare a dei parenti. Don Beccherle riesce a farlo telefonare ma la comunicazione è interrotta e il giovane cade in una profonda disperazione. Alle 4 Ottorino riceve la Comunione come viatico da Don Beccherle, a cui poi consegna i suoi effetti personali. Arriva il suono lungo del campanello che indica l'ora dell'esecuzione. La macchina è pronta per portare i cinque giovani allo stadio Berta. A una recluta del plotone Ottorino dice “colpiscimi giusto e non farmi tanto soffrire”. Mentre sono in macchina passano accanto dei gerarchi fascisti a cui, insieme ad Antonio Raddi, chiede pietà e possibilità di rilascio. Don Beccherle insieme a Don Giulio Roberti benda i cinque giovani, ma Ottorino vuole parlare con il comandante del plotone, a cui chiede: “Ma perchè ci fucilate? Sapete cosa vuol dire morire? Mandateci al fronte, ma noi siamo innocenti, nessuno ci può salvare?” Arriva l'esecuzione, Ottorino non muore subito, si dimena legato alla sedia e grida “Mamma! Mamma!”. Il comandante del picchetto si avvicina e gli scarica in faccia sei colpi di rivoltella, ma è ancora vivo, perde sangue e continua ad invocare la mamma. Interviene quindi il Maggiore Mario Carità che gli dà il colpo di grazia.
Antonio, contadino, nasce a Vicchio di Mugello in provincia di Firenze il 20 maggio 1923 da Attilio e Antonia Boni.
È arrestato dalle SS italiane a Vicchio di Mugello insieme al fratello Marino, poi graziato e inviato ai reparti operativi. Portato a Firenze nel carcere delle Murate, il 21 marzo 1944 è condannato a morte dal Tribunale Speciale Militare fiorentino per renitenza alla leva.
L'ultima notte della sua vita è il primo ad arrivare nella cella, accanto all'ufficio del comandante del carcere. È disperato, barcolla, esasperato, Don Beccherle gli infonde un briciolo di speranza, dicendogli che suo fratello Marino è stato graziato, forse la grazia arriverà anche per lui. Si asciuga le lacrime e si confessa, dicendo che la Madonna ha fatto una grazia: di due figli ne lascia uno, vivo, alla mamma. Non ha paura di morire, è innocente “sorrido in faccia alla morte". Scrive alla famiglia e al suo Priore “che mi ha sempre voluto bene”.
La commozione e la disperazione prendono Antonio e gli altri quattro giovani condannati che gridano, piangono, si buttano in terra e tra le braccia del Cappellano, che li sostiene fino alla morte.
Alle 4 riceve da Don Beccherle la Comunione come viatico e si riunisce in cerchio con gli altri. Alle cinque consegna al Cappellano militare la lettera e gli effetti personali. Arriva il suono del campanello, la macchina che li deve condurre allo Stadio è pronta.
Don Beccherle li accompagna. Antonio, in attesa nella macchina, si accorge della presenza di un gruppetto di gerarchi fascisti, che sbirciano dentro. Antonio con Ottorino Quiti grida: “Pietà, aiuto. Ci fucilano. Salvateci!” Ma uno di questi, digrignando i denti, risponde: “Ah! Adesso… pietà”.
Antonio riceve l'ultima assoluzione da Don Beccherle, che poi con Don Giulio Roberti prepara i giovani bendando loro gli occhi.
Antonio chiede di baciare il Cappellano e di dire alla mamma che si è confessato e che gli è stato vicino fino alla fine. Un certo Paolo di Cistio, una frazione di Vicchio, va a salutare Antonio e tutti gli altri. Ottorino Quiti comincia a tremare, vuole alzarsi e scappare. Anche Antonio è disperato. Il segnale del fuoco è dato. Antonio muore subito.
Adriano Santoni, contadino, nasce a Vicchio di Mugello l’11 luglio 1923. Il padre si chiama Italo, la madre Marianna Rossi.
Arrestato da SS italiane a Vicchio di Mugello è portato a Firenze nel carcere delle Murate.
Il 21 marzo 1944 è condannato a morte dal Tribunale Speciale Militare fiorentino per renitenza alla leva.
L'ultima notte della sua vita Adriano è nel carcere delle Murate con Guido Targetti, Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi. Arriva nella cella accanto all'ufficio del Comandante del carcere, è disperato, grida, piange, abbraccia Don Beccherle e rimane svenuto per gran parte della notte.
Alle 4 assiste alla Santa Messa celebrata da Don Beccherle, fa la Comunione come viatico e subito dopo sviene.
Alle cinque consegna gli effetti personali al Cappellano militare. Poi il suono lungo del campanello è il segnale: la macchina è pronta per portare i cinque giovani allo Stadio di fronte al plotone di esecuzione.
Allo Stadio, vicino alla torre di Maratona, tutto è pronto: cinque sedie, cinque bende e due file di dodici giovani reclute.
Adriano riceve l'ultima assoluzione da Don Beccherle e lo bacia. Il plotone spara. Adriano muore subito con Guido Targetti e Antonio Raddi.
- Orazio Barbieri, “I ponti sull'Arno”, Editori Riuniti 1975, p. 122-134
- “I cinque ragazzi del Campo di Marte. La libertà non è un regalo, è una conquista. In memoria di cinque giovani fucilati a Campo di Marte – Firenze: Guido Targetti, Leandro Corona, Antonio Raddi, Ottorino Quiti, Adriano Santoni”, FBCommunication, 2023
- Comune di Firenze, “22 marzo 1944 Campo di Marte”, Tipografia comunale, 2002
- Nicola Coccia, “Strage al Masso delle Fate”, ETS, 2022
- Giovanni Frullini, “La liberazione di Firenze”, Pagnini, 2006, p. 55
- Fernando Gattini, “Giorni da “Lupo”. Fascismo e Resistenza a Vicchio di Mugello tra l'estate '43 e l'estate '44”, Nuova Grafica Fiorentina, 1995
- “Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana. 8 settembre 1943-25 aprile 19452”, Einaudi, 2003, p. 86 e p. 305
- Alessandra Povia Zani, ”Ragazzi come noi”, Toscana Media Arte, 2002
Giovani renitenti, tenete duro!
I cinque giovani fucilati a Campo di Marte il 22 marzo 1944 per renitenza alla leva della Repubblica Sociale Italiana.
Scaduto il termine per la presentazione, in ogni città sono incominciati i massacri di questi giovinetti, accusati di diserzione. Furenti di rabbia per non poter consegnare tanti schiavi quanti richiestogli dai loro padroni tedeschi, i fascisti non vedono e non sentono l'odio e lo sdegno crescente di tutto il popolo italiano.
La generalità delle renitenze e delle fucilazioni dei giovani dimostra chiaramente che i fascisti non sono di fronte a casi sporadici, ma di fronte alla volontà cosciente e decisa di tutto il popolo italiano che vuol farla finita colla guerra, che l'ha ridotto alla rovina.
Le condanne assassine dei tribunali fascisti non son che un'unica condanna contro il fascismo stesso, un riconoscimento della sua impotenza d'ingannare ancora i giovani.
Anche nella nostra città, cinque giovani sono stati fucilati nelle più orribili e commoventi circostanze, alla presenza delle reclute che si son rifiutate di sparare. L'effetto ottenuto sui soldati è chiaro; la stessa sera poco più della metà rientrarono alle caserme, spaventati dalla scena di quel delitto, in cui ancora una volta Mario Carità, ha sparato i suoi colpi, egli che non osa mai mostrarsi in pubblico.
Giovani renitenti, tenete duro! Questo è l'ultimo tentativo del fascismo per terrorizzarvi!
Nessun compromesso col fascismo; cercate di raggiungere i partigiani; organizzatevi, procuratevi un arma e rispondete col fuoco al fuoco che ha ucciso i vostri fratelli Raddi Antonio, Targetti Guido, Corona Leandro, Quiti Ottorino, Santoni Adriano
Lettura tratta dall'articolo “Follia sanguinaria del fascismo” pubblicato sul giornale “L'Azione comunista” del 4 aprile 1944
Vengo con questa ultima lettera
I cinque giovani fucilati a Campo di Marte il 22 marzo 1944 per renitenza alla leva della Repubblica Sociale Italiana.
Guido Targetti scrive poche ore prima di essere fucilato. La lettera è conservata presso l'Istituto storico toscano della Resistenza e dell'età contemporanea
Carissimi genitori e tutti di famiglia,
vengo con questa ultima lettera, dove non mi è stato possibile darvi mie notizie, dato che mi trovo entro queste brutte mura, in questo momento sto ricordandovi, ad uno ad uno con tutto il mio cuore. Credetemi che sempre vi ho voluto bene e che sempre in qualunque momento ho ricordato ciò che voi avete fatto per me.
Se qualche volta vi ho fatto qualche torto vi prego di perdonarmi di tutto cuore.
Vi ho sempre voluto bene e prego, anzi è pregato sempre il Padre Eterno con tutti i suoi Santi di aiutarvi e proteggervi.
Se Iddio volesse chiamarmi a sé, io pregherò sempre d'alto dei cieli per la vostra felicità.
Il vostro figliolo che sempre vi ha voluto tanto bene, vi chiede perdono se qualche volta vi ha recato dolore e vi bacia tutti salutandovi e chiedendovi perdono se qualche volta vi ha recato dolore.
Vostro figliolo
Targetti Guido
Saluto a tutti. Qui insieme sta pure Corona Leandro. Vi prego di tenerlo come fratello. Ancora una volta vi bacio e vi saluto tutti. Vostro
Targetti Guido