L'attraversamento del fiume, il terrore, le azioni militari dei partigiani
Marcello Bellesi nasce a Vaglia, in provincia di Firenze il 29 aprile 1924.
Il padre si chiama Giulio, la madre Teresa Bartolani. Abita in via Benedetto Dei 5 nel quartiere di Novoli.
Marcello Bellesi “Pantera” entra in clandestinità nel marzo del 1944 e si arruola nella 22° Brigata Garibaldi Lanciotto.
“Pantera” partecipa alla battaglia di Cetica, piccolo paese nel comune di Castel San Niccolò in provincia di Arezzo, del 29 giugno 1944. La battaglia fa parte di un'ampia azione repressiva dell’esercito tedesco che investe l'aretino dal massiccio del Pratomagno fino alla Valdichiana, volta a sgombrare dalla presenza dei partigiani le vie di transito necessarie alla ritirata verso la Linea Gotica.
Dopo il 25 giugno i partigiani della Brigata Lanciotto contendono per due volte ai tedeschi del reggimento Brandenburg il paese di Strada in Casentino. Da valle i tedeschi salgono su per la strada principale di Cetica e cannoneggiano per ore le postazioni partigiane. Il partigiano Enzo Valobra racconta “siamo costretti a stare ventre a terra nel bosco”.
L'attacco tedesco del 29 giugno, che dà il via alla battaglia di Cetica, sorprende i partigiani che sono in attesa dell'emissario del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN).
All'alba inizia il rastrellamento tedesco nell'area tra Montemignaio e Cetica. Sono circa 200 i soldati su due colonne della 2° Compagnia del 3° reggimento Brandenburg, guidati da alcuni italiani travestiti da partigiani col fazzoletto rosso al collo.
Alle 6 del mattino il primo scontro è a Pagliericcio, a cui segue una battaglia casa per casa.
I partigiani della Lanciotto resistono, tra questi “Pantera”, che si asserraglia in paese con il suo mitragliatore. A fine mattinata Cetica è in fiamme, nessuna speranza di salvarlo.
Si contano tredici vittime tra i civili, tra cui Gino Municchi di soli 15 anni e tredici partigiani fra questi il giovanissimo Dante Valobra e cinque feriti.
La battaglia di Cetica sul piano militare può considerarsi un successo, gli stessi tedeschi lo riconoscono, registrando nel diario di guerra che il 3° Reggimento Brandenburg è “troppo debole per intraprendere un'azione davvero radicale” nella lotta alle bande.
Ma a “Potente”, il comandante della brigata, non sfugge l'alto costo umano che gli fa dubitare di considerare una vittoria “un'azione che ci è costata così cara”.
Siamo alla vigilia della battaglia di Firenze, le brigate si muovono verso la città.
La mattina dell’11 agosto due squadre della Brigata Lanciotto sono incaricate dal comando della Divisione Garibaldi Arno, che prende il nome di “Potente” dopo la sua morte, di attraversare il fiume.
La battaglia infiamma, le retroguardie tedesche impegnano i partigiani in ogni angolo di strada.
La prima squadra, guidata da Carlo Martelli “Sceriffo”, attraversa l'Arno a est a Rovezzano, ingaggia una breve sparatoria e arriva a Palazzo Vecchio.
La seconda squadra, guidata da “Pantera”, passa l'Arno a ovest dove è in secca, in prossimità delle Cascine fino al Piazzale del Re ma è bersaglio del tiro dei paracadutisti tedeschi, asserragliati dentro la Manifattura Tabacchi, roccaforte tedesca sulla linea del Mugnone, la Kanal Linie.
“Pantera”, comandante della squadra, è colpito a morte, ha solo 20 anni.
Sirio Ungherelli “Gianni”, commissario politico della Brigata Sinigaglia, lo ricorda come un valoroso caposquadra. La sua salma riposa nel cimitero di Soffiano, nella Terrazza dei partigiani.
- Giovanni Frullini, "La Liberazione di Firenze", Pagnini, 2006
- Francesco Fusi, "Guerra e Resistenza nel fiorentino. La 22° Brigata Garibaldi Lanciotto Ballerini", Viella, 2021
- Vasco Palazzeschi, "Mara. Dall’antifascismo alla Resistenza con la 22° Brigata “Lanciotto”", La Pietra, 1986
- Sirio Ungherelli “Gianni”, "Quelli della Stella rossa", Polistampa, 1999
Attraversare l'Arno l'11 agosto 1944, il giorno dell'insurrezione di Firenze
Memorie di Giorgio Spini, antifascista, membro del Partito d'Azione, trasmise da Radio Bari verso l'Italia occupata, con lo pseudonimo di Valdo Gigli. Distaccato dall'esercito italiano presso l'VIII Armata Britannica, lavorò sul fronte di guerra per lo Psychological Warfare Branch
...decidemmo di portarci all'altezza delle Cascine per tentare di lì il guado. La zona sembrava silenziosa e senza sparatorie: dunque sembrava che non ci fosse granchè pericolo di beccarci una raffica, mentre eravamo belli scoperti e ben visibili in mezzo al fiume.
Tastammo un po' il fondo del fiume e capimmo che l'Arno ci sarebbe arrivato a più che mezza vita, ma per fortuna la sua corrente era abbastanza calma e non minacciava di travolgerci. Mi spogliai dell'uniforme e con quella, le scarpe e la pistola, feci un pacco che mi legai al collo, e poi entrai in acqua, mandando in cuor mio una preghiera silenziosa al Signore che non incappassi in qualche buca traditrice.
Ci andò tutto bene e una volta di là, mi spogliai della biancheria bagnata, mi rimisi l'uniforme e le scarpe e mi avviai verso il centro per fare il mio ingresso nella città di Dante e dei miei avi, brandendo, in una mano la pistola, e nell'altra un paio di mutandoni bagnati.
Dalle boscaglie delle Cascine sbucò un gruppo di armati di mitra con un fazzoletto rosso al collo, guidati da una piuttosto bizzarra figura: un uomo attempato, con un pizzetto grigio alla moschettiera, il mitra e il fazzoletto rosso dei partigiani e due gambe secche che uscivano nude da un paio di pantaloncini corti e sbarazzini, che parevano quelli di Gian Burrasca: “Oh ma quello è Ramat!” Esclamammo miei due accompagnatori e io.
Lettura tratta dal libro di Giorgio Spini, “La strada della Liberazione. Dalla riscoperta di Calvino al fronte della VIII Armata", a cura di Valdo Spini, pubblicato da Claudiana editrice nel 2002
I franchi tiratori e la morte del partigiano Tinti, 12 agosto 1944
Memorie di Sirio Ungherelli “Gianni”, commissario politico della Brigata Garibaldi Sinigaglia
Ricordo ancora, come fosse successo ora, il dodici agosto, mentre con una squadra partigiana sparavo verso un tetto da dove avevano sparato e ucciso una donna, fui raggiunto da Bastiano che avevo mandato al Distretto Militare per sapere notizie sulla battaglia in corso.
Vidi subito che Bastiano era demoralizzato e molto addolorato. “Gianni, - mi disse – devo darti una brutta notizia.” “Parla”, gli risposi. “Il nostro Tinti è stato colpito da un cecchino sull'angolo tra via Serragli e via Sant'Agostino, è stato portato al Distretto Militare ma era già morto.”
Abbracciai Bastiano e ci mettemmo a piangere confondendo le nostre lacrime.
Quando il quattro agosto arrivammo in piazza Gavinana, mi presentò la sua famiglia e la sua ragazza. Era tanto felice. La madre mi chiese di stare attento alla vita di suo figlio.
“Bastiano, lo sai come me: come si fa a stare attenti in una guerra come questa. Guarda, è il terzo giubbotto che cambio e anche questo è sforacchiato alle maniche, in basso e così via. La morte non mi vuole, tu sai tutto di me. Nelle ore del pericolo siamo stati sempre insieme. Ora mi metto in mezzo alla strada e aspetto che colpiscano. Voglio farla finita non ce la faccio più. Il mio Tinti intelligente, sempre tranquillo, audace, bello, buono, non c'è più. Non ce la faccio più a veder morire tanti nostri compagni, che amiamo più che se fossero nostri fratelli.”
Bastiano mi strinse più forte che mai: “Giannino abbiamo bisogno di te, delle tue capacità, perché sei una roccia, una bandiera.”
“Stiamo più vicini Bastiano, perché anche tu sei una roccia e una bandiera.”
Lettura tratta dal libro di Sirio Ungherelli “Gianni”, “Quelli della Stella Rossa”, pubblicato da edizioni Polistampa nel 1999